AUTOCONSAPEVOLEZZA E ASCOLTO EMPATICO INDISPENSABILI PER UNA SINTONIZZAZIONE AUTENTICA

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Intervista a Francesca Imbimbo (pedagogista)

 

Lei ha lavorato con bambini e famiglie in difficoltà, sia in ambito preventivo con l’home visiting che in ambito di tutela in comunità educativa. C’è un filo rosso che unisce queste diverse esperienze?

Sì c’è il filo rosso del rispetto per le persone e per le loro storie. È molto importante poter ascoltare e osservare le situazioni difficili sospendendo almeno inizialmente il giudizio; questo è stato più chiaro ed evidente nel lavoro di sostegno a domicilio attraverso l’home visiting, in cui entrare in casa era un momento molto delicato per conoscere la famiglia e stabilire una relazione di fiducia.

L’atteggiamento di sospensione del giudizio è ovviamente più difficile laddove c’è già stato un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria che ha prescritto l’allontanamento dal nucleo familiare e una serie di interventi di valutazione. Forse però è ancora più necessario in questi casi, perché diventa cruciale che una certa decisione non precluda la possibilità di lavorare con quel nucleo familiare, con quei genitori.

Un altro filo rosso è l’aspetto emotivo, che rimane una costante a cui prestare attenzione.

Ci può spiegare meglio?

Le situazioni in cui ci troviamo a lavorare come educatori o come operatori sociali sono ad alto contenuto emotivo: pensate a cosa può significare in termini di vissuti emotivi accogliere in comunità un bambino pieno di lividi, ascoltare in un centro diurno racconti di eventi traumatici, accompagnare in casa una maternità resa difficile da tanti fattori diversi…

È necessario mettere in atto un ascolto empatico?

Certamente, questo è fondamentale per potersi avvicinare alle emozioni a volte dirompenti, a volte congelate dei bambini e degli adulti di cui ci occupiamo: solo un’attitudine di ascolto empatico permette una sintonizzazione autentica con loro. È altrettanto importante però un ascolto delle proprie emozioni, ossia una consapevolezza di quanto sta accadendo dentro di noi. Anzi direi che, senza questa autoconsapevolezza, risulta difficile anche cogliere i vissuti dell’altro.

Non pensa che questa consapevolezza faccia già parte del bagaglio di chi lavora nelle relazioni d’aiuto?

Dovrebbe in effetti essere così, ma, per quella che è stata la mia esperienza, direi invece il contrario. A volte c’è una scarsa abitudine a considerare gli aspetti emotivi, a volte possono entrare in gioco movimenti difensivi di fronte alla sofferenza dei bambini, per esempio, oppure rispetto a narrazioni di eventi di maltrattamento difficilmente “pensabili”. Inoltre vorrei sottolineare come la nostra cultura abbia sempre privilegiato gli aspetti verbali e cognitivi della relazione: quasi tutto passa attraverso la parola e l’intelligenza razionale, mentre come sappiamo esistono diversi tipi di intelligenza e anche diverse modalità di comunicazione. D’altra parte questo destino è riservato anche agli aspetti corporei.

Cosa intende?

Ci dimentichiamo spesso che abbiamo un corpo, come dimentichiamo il corpo dei bambini, ragazzi, adulti di cui ci occupiamo. Basta pensare alla punizione, ancora utilizzata da tante insegnanti, che consiste nel far saltare l’intervallo! Dovremmo ormai essere consapevoli di quanto il movimento, così come la regolazione emotiva, favoriscano gli apprendimenti.

Più in generale siamo poco consapevoli anche di quanto avviene nel nostro corpo quando siamo in una relazione d’aiuto: riconoscere le nostre sensazioni, il nostro benessere o malessere a livello corporeo potrebbe essere uno strumento di lavoro, se solo ne fossimo consapevoli. Inoltre dimenticare il corpo significa anche sottovalutare l’impatto che la mia corporeità (postura, gesti, movimenti nello spazio, mimica…) può avere nel momento in cui lavoro con un’altra persona, che sia bambino, adulto o adolescente.

Se incontrasse un giovane educatore che inizia il suo percorso lavorativo, cosa consiglierebbe?

Gli/le direi di ricordare sempre che le situazioni che si troverà di fronte sono complesse; avere a che fare con la complessità richiede flessibilità, apertura mentale e curiosità, oltre che molta pazienza e formazione.

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