Una voce misteriosa ma familiare, che pone domande su cui interrogarsi

di

Daniela, 14 anni

Correvo stanca, disperata. Probabilmente senza meta. Il buio mi assaliva e cercavo anche un minimo spiraglio di luce. Tutto intorno a me sembrava così fitto. Il fiato si faceva sempre più pesante. Si fece difficile anche solo pensare di poter incanalare una piccola quantità d’ossigeno.

Ero sola, nell’oblio totale l’unica compagnia era un costante ticchettio. Non capivo cosa fosse. Era straziante sentir rimbombare quel rumore, mi metteva in soggezione. Mi faceva credere che ci fosse qualcosa di più grande, molto di più, che non potessi neanche cercare di controllare. Quel “qualcosa” che sapevo fosse presente ma, semplicemente, avevo accettato, dovevo accettare. Sfinita, mi fermai e mi guardai intorno.

“Ma dove diamine sono finita? Non ricordo neanche il tragitto per arrivare fin qui” pensai. Il nulla più totale mi avvolse.

“Mi sentite?” chiesi. Successivamente mi schiarii la voce.

“C’è qualcuno o no in questa razza di buco?!” gridai così tanto che sentii la gola bruciare.

Il ticchettio avanzava verso di me, non riuscivo a sopportarlo. Mi portai le mani alle orecchie, quasi come a voler rifiutare la realtà. Una lacrima si fece strada sulla mia guancia.

“Non sei qui per caso, nessuno viene qui senza un’apparente ragione”. Una voce anonima, non identificabile per genere, sputò questa sentenza facendomi fare un sussulto.

“Credi davvero che ti abbia portato qui solo per riempire i tuoi incubi? Se è questo che pensi devo ammettere di aver idealizzato un po’ troppo su di te. Riflettici bene. Odio avere torto e mi deluderebbe parecchio sapere che tu non sia una ragazza perspicace” aggiunse.

Non avevo idea di chi si celasse dietro a quella voce misteriosa, riuscivo solo a scorgere un accenno di delusione nelle sue parole. Avevo la sensazione di averci a che fare tutti i giorni, eppure la sua identità mi era comunque ignota.

“Cosa vuoi da me e chi sei?” chiesi con un cipiglio in volto.

“Oh tesoro, da te non bramo assolutamente nulla. Piuttosto sei tu che mi desideri, infatti non puoi fare a meno di me. Riesco sempre a sorprenderti, a farti fare tutto ciò che normalmente fai. Mi sprechi continuamente e poi hai anche la presunzione di lamentarti. E’ questo che fai, ti lamenti. Non mi utilizzi correttamente e poi mi attribuisci la colpa. Vorresti potermi avere ancora ma devi far sì che io ti basti, come fanno tutti, come devi fare anche tu”.

Non sapevo più cosa dire, quelle parole avevano smosso qualcosa. Una verità così accurata e sottile che mi fece dubitare di me stessa. Se prima mi sentivo avvolta dal nulla, in quel momento mi sentivo il nulla. Ma avevo realmente capito chi o cosa fosse quella voce onesta? Magari l’avevo fatto ma non volevo ammetterlo. Proprio come il mio interlocutore odiavo avere torto.

Perché mi sembrava tutto così familiare? Vivevo realmente quell’incubo ogni giorno? Era ora che mi ponessi davanti ai miei problemi. Apparivo sicura di me ma l’unica sicurezza era quella di non essere abbastanza, non mi bastava mai nulla in effetti. Altri mi avrebbero definita “ingorda” ma, con un’attenta autoanalisi, l’aggettivo più adatto era “superficiale”. Apparivo realmente così? E cosa pensavano gli altri di me?

Non potevo più rimanere nell’incertezza. Un “no” mi avrebbe lacerato più di un “si”, eppure posi quella dannata domanda.

“Non sarai quello che penso io?” chiesi con voce fievole e spezzata.

Nessuna risposta. Un vento gelido fece seccare le lacrime scese in precedenza sulla mia guancia. Fu in quel momento che capii che non sarei più potuta uscire o, almeno, non subito da quel circolo vizioso, da quella selva così fitta che i passi erano lenti.

Ed io mi trovavo lì, a vagare nel vuoto lentamente cercando un appiglio, pensando di potermelo permettere quel “lentamente”. Frivola, ecco cos’ero. Fui amareggiata come non mai da tale definizione. Forse, come quel disturbante ticchettio, avrei dovuto accettare anche questo. Io, però, non volevo.

Mi accasciai per terra e mi sentii trascinare verso il basso, dove sono tutt’ora. Sprofondai con la consapevolezza di aver sprecato la cosa a noi più preziosa: il tempo.

 

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