“Vogliamo lasciare un’impronta ai nostri ragazzi”: le storie degli operatori

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Il progetto “Dare di più a chi ha avuto di meno” prende forma e ci piacerebbe raccontarci come equipe locale formata da Ambra, Chiara, Daniele e Licia.  Siamo tutti dei giovani professionisti impegnati nel sociale, alcuni di noi ancora nuovi alla gestione di un progetto di così grande portata e importanza ma tutti con la grande motivazione che davvero si possa lasciare un’impronta agli adolescenti di Camporeale.

Un proverbio africano dice “Per educare un figlio ci vuole un villaggio” e crediamo che questo sia ancor più vero in una realtà piccola come la nostra. Questi mesi iniziali sono stati fondamentali per fare della nostra equipe una squadra coesa che guarda con lenti diverse allo stesso obiettivo. E ritrovarci uniti ha permesso di presentarci ai nostri partner ufficiali come credibili, conferendo la stessa sensazione anche al progetto che rappresentiamo.

Abbiamo trovato buone risposte con le due amministrazioni comunali partner ufficiali, Camporeale e Roccamena, e un punto di forza nella nostra referente scolastica Vincenza Almerico che crede al progetto quanto noi.

Le difficoltà e gli imprevisti ci sono e continueremo a trovarli, ne siamo consapevoli, ma volevamo condividere la positiva sensazione provata nel raggiungimento dei primi obiettivi: la riunione con i genitori, vedere i primi volti, capire con chi ci saremo confrontati e il primo incontro con le associazioni, ancora da motivare e far crescere; poi loro i protagonisti, i primi volti dei ragazzi del laboratorio extrascolastico, la loro vivacità e curiosità. È da qui che inizia la vera sfida del progetto dell’associazione “A Braccia Aperte”, dell’Istituto comprensivo “Leonardo Sciascia” e del territorio di Camporeale e Roccamena.

E inizia la più grande sfida per noi equipe e nell’augurarci buon lavoro volevamo sottolineare la positività di questo inizio.

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Mi chiamo Simona Padalino e ho 31 anni. Sono una pedagogista di ispirazione sistemica e Mediatrice familiare di scuola Umanistica. Lavoro al Centro polivalente Parcocittà, nello specifico per l’associazione “l’Aquilone”, a Foggia, di cui sono componente del direttivo. Essa si occupa da quasi 25 anni principalmente di minori e famiglie in condizione di fragilità ed è attiva sul complesso territorio di Foggia grazie anche alla forte sinergia con enti pubblici e privati, quali l’Associazione Emmaus, festeggiante quest’anno i suoi primi 40 anni di sfide vinte e importanti traguardi raggiunti. Questo progetto incarna la comunione di intenti tra i due enti, e io mi sento a casa in entrambe le realtà, grazie alla squadra Emmaus e alle esperienze di volontariato nell’educativa di strada e in carcere vissute con loro. Tra le attività attivate nella Casa del Giovane Emmaus c’è il potenziamento scolastico (azione n° 8) che sta vedendo la partecipazione ad oggi di ragazzini e ragazzine di 1° e 2° media della scuola Pio XII. Il gruppo caratterialmente è molto variegato, ma sin da subito si è respirata un’atmosfera propositiva da parte dei ragazzi, che hanno colto positivamente l’impostazione degli incontri. L’equipe ha scelto di dare a questa azione un’impostazione semi-laboratoriale che prevede un primo momento di attività orientate al  potenziamento delle soft skills e delle competenze trasversali essenziali sia per la strutturazione dell’identità dei ragazzi (personale e sociale) sia come scaffolding per l’autonomia di pensiero e di metodo necessaria nello studio. Il lavoro procede in maniera mirata anche per ciò che concerne l’affiancamento alle materie scolastiche, ed è molto piacevole approfondire giorno dopo giorno la conoscenza di questi ragazzi che si rivolgono a noi in maniera serena per ogni dubbio o consiglio. Anche la partecipazione dei genitori è molto sentita; essi accompagnano i propri figli e sono costantemente aggiornati. In generale questo progetto si sta prospettando molto interessante e arricchente dal punto di vista professionale ma soprattutto umano.

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Elena Presicci, responsabile linea I – educazione formale di Bari, racconta due storie di giovani che frequentano la scuola secondaria.

Vi racconto la breve storia di un ragazzo di 13 anni, frequentante la scuola secondaria di primo grado Don G. Bosco. Per tutelare l’anonimato del minore, lo chiamerò Giulio.

Durante il mio primo incontro del laboratorio educativo “Io Valgo” anno 2018/2019, scatto qualche foto (sottolineando a tutti che avevo avuto il consenso dei loro genitori) per immortalare alcuni momenti in cui i ragazzi stavano facendo delle attività. Un gruppetto si avvicina alla cassa per capire se funzionasse anche il microfono e c’era con loro Giulio, che si accorge che gli scatto una foto.

Ad un certo punto si allontana, sbatte le cose a terra, prende una sedia e l’allontana da sé. Io ero lì di fronte a lui cercando di contenerlo attraverso la voce, ma la sedia mi è venuta addosso. Rimaniamo entrambi immobili. Mantenendo un fisso contatto visivo, dico a Giulio che mi ha fatto male e che non capivo perché fosse così tanto arrabbiato. Lui mi chiede scusa e poi mi spiega che gli aveva dato fastidio che io avessi fatto quella foto al gruppo in quanto pensava che poi l’avrei portata dal preside per dire che avevano usato il microfono senza il suo permesso.

Lo rassicuro e gli dico che non mostrerò quella foto al preside, perché il mio intento non è di metterlo nei guai e che avrei cancellato la foto se lui avesse voluto. Mi guarda dritto negli occhi e mi fa un sorriso. È tornato così a fare la sua attività con gli altri suoi compagni.

La seconda storia è di Matteo – sempre nome di fantasia – di 13 anni, frequentante la scuola secondaria di primo grado G. Pascoli. Il mio primo incontro del laboratorio educativo “Io Valgo” anno 2018/2019 è stato di conoscenza dei ragazzi. I ragazzi di questo gruppo (proprio per le loro vulnerabilità) sono stati molto esuberanti e hanno cercato di testare la mia pazienza. Uno di questi ragazzi, Matteo, è stato un grande disturbatore.

Alla fine dell’incontro, il ragazzo ha preso alcuni pennarelli colorati e ha scritto sul tavolo “Grazie Scusa Elena”, aiutato poi da un altro ragazzo attratto da ciò che stava facendo Matteo. Ho davvero apprezzato e ho compreso che quello è stato il suo modo per chiedermi scusa non verbalmente; si è reso conto del suo comportamento poco rispettoso del lavoro che ho tentato di fare con loro durante l’incontro.

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