La parola agli educatori ai tempi della DAD / 2

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L’intervista prosegue a Debora e Valentina, educatrici nei CEC di Grugliasco dove svolgono attività pomeridiane aggregative, ludico-creative e di supporto allo studio.

Come è cambiato il vostro ruolo di educatrici nei CEC da quando è iniziato il lockdown?

Sicuramente dall’inizio del lockdown abbiamo dedicato maggiore attenzione ai genitori più che ai figli, cercando di far capire loro che non sarebbero stati soli in questo momento in cui la scuola sembrava averli “abbandonati”. Diciamo questo perché le scuole medie hanno iniziato dopo con l’attivazione di video lezioni e i genitori dovevano destreggiarsi con le consegne dei compiti online, il lavoro e la regolare gestione famigliare. La rubrica che abbiamo inventato “Non perdiamoci di vista” è stato un semplice escamotage per suggerire alcune attività concrete ma soprattutto per mantenere un contatto con loro e dimostrarci disponibili qualora ne avessero avuto bisogno.
Il nostro ruolo con i ragazzi è rimasto perlopiù invariato, grazie al fatto che la relazione è stata già coltivata in presenza; ma ci è sembrato che alla normale richiesta di aiuto nei compiti si sia affiancata la necessità di una educazione digitale, molto concreta e volta alla soluzione di problemi tecnici.

Perché i CEC sono importanti in questo particolare periodo storico?

La più grande potenzialità è che il servizio, essendo gratuito, ha permesso alle famiglie di mantenere una certa quotidianità. Non hanno cioè dovuto scegliere se continuare o meno ad usufruire di questo servizio, problema che si sarebbe posto con l’attività a pagamento. I ragazzi, dal canto loro, hanno avuto uno spazio in cui, anche se virtualmente, hanno potuto incontrare delle persone con cui hanno stretto delle relazioni (educatori, tutor e compagni), il tutto in un contesto protetto e con la supervisione di adulti.

Essere “educatori digitali” significa (anche) entrare con le webcam nelle case e nelle famiglie: che cosa avete visto? E come questa novità ha influito sul modo di condurre e organizzare i CEC?

Innanzitutto, un po’ per povertà di strumenti, un po’ perché lo smartworking ha permesso ai genitori di seguire i figli, il numero di partecipanti è diminuito di due terzi. Condividiamo alcune esperienze:
– ci sono ragazzi che hanno la fortuna di avere lo spazio del giardino, e altri che si trovano in cameretta con il fratello o in cucina con la mamma che prepara la cena e l’altra sorella che studia
– in alcuni casi abbiamo percepito tensione e stress in famiglia, sentendo discussioni e schiamazzi in sottofondo
– alcune mamme hanno mantenuto il rito dell’accompagnamento allo studio salutandoci all’inizio della chiamata.
– le attività a distanza hanno richiesto più energie e tempo, sia a noi che alle famiglie
– i genitori e i ragazzi si impegnano a comunicare per tempo la partecipazione alle attività aggregative, al momento di studio e a condividere gli esercizi da svolgere.
Noi educatori e tutor dopo alcuni tentativi abbiamo trovato la soluzione migliore soprattutto per lo studio: l’ora e mezza che facevamo in presenza si è trasformata in un’ora virtuale, ma i ragazzi sono seguiti uno a uno anziché in gruppo.

Come scegliete le attività? Quale quella che riscuote più successo?

Come per lo studio abbiamo fatto diversi tentativi per capire quali fossero le attività più coinvolgenti, e via via le abbiamo adattate in base ai bisogni che abbiamo rilevato. Ultimamente abbiamo notato che i ragazzi sono saturi di video chiamate e preferiscono non farsi vedere, in più non amano “avere dei compiti” (realizzare prodotto, foto e video) ma preferiscono che l’attività sia esaurita nell’arco del tempo prefissato.

Come vi sembra siano cambiati i ragazzi dall’inizio dell’emergenza a oggi?

Anche qui condividiamo alcune esperienze:
– chi in presenza era particolarmente vivace in questo periodo si è tranquillizzato molto
– chi prima partecipava ai laboratori ha continuato a farlo
– qualcuno è diventato molto apatico ed è molto difficile riuscire a coinvolgerlo
– durante il momento dei compiti sembrano più attenti, forse per merito del rapporto uno a uno.
In alcuni casi ci sembra di essere riusciti a stringere maggiormente la relazione con i ragazzi, in particolare nei momenti in cui abbiamo dovuto trovare delle soluzioni insieme (ed esempio per risolvere i problemi tecnici).

Come descrivereste i loro bisogni in questa situazione di libertà di movimento limitata?

Non siamo riuscite a trovare l’occasione per parlarne con i ragazzi, immaginiamo che abbiano bisogno di uscire e di stare in relazione con gli altri. Una cosa che abbiamo rilevato senza aver avuto bisogno di chiedere è la necessità di ricostruire un ritmo e avere degli appuntamenti con qualcuno, questo soprattutto da parte di chi è figlio unico.

Qual è la cosa più difficile del vostro lavoro, oggi?

È tre mesi che non vediamo alcuni ragazzi, perché sappiamo che le famiglie sono in grado di supportarli, però ci spiace non sapere come stanno. Nelle fasi iniziali la povertà di strumenti di alcune famiglie ci ha allontanato da ragazzi che avevano davvero bisogno di noi, ma grazie alla fornitura di tablet e al dialogo con gli insegnanti da circa un mese siamo riusciti a riprendere questa relazione. È molto difficile trasmettere le nostre emozioni e intenzioni tramite cellulari e computer: gestire la comunicazione esclusivamente in via digitale porta e dei momenti di esasperazione sia per noi che per le famiglie.

E quella più bella?

Gli sforzi fatti per costruire relazioni con gli insegnanti hanno portato dei risultati: siamo riusciti a fare da ponte con le famiglie più fragili e con i ragazzi più sfuggenti, non solo creando partecipazione ma anche integrando il lavoro di didattica a distanza.

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