I formatori come castori, nelle periferie per costruire dighe
di Fondazione Mondo Digitale
Per spiegare le enormi potenzialità innovative del terzo settore l’economista Stefano Zamagni usa una metafora molto efficace: paragona il lavoro che fanno le organizzazioni più avanzate all’attività del castoro, “costruttore di nicchie”, capace cioè di dare vita a nuovi ecosistemi. Il castoro, animale sociale e comunitario, costruisce la proprio diga e così facendo modifica l’habitat che lo circonda, creando le condizioni che consentono ad altre specie di vivere. Cambia il mondo intorno a sé, rendendolo migliore anche per gli altri. Ad esempio quando costruiamo nuove Palestre dell’Innovazione nelle periferie italiane cerchiamo di fare qualcosa di molto simile al castoro, creiamo nuovi ecosistemi inclusivi. E sviluppiamo una capacità generativa per l’intero ambiente circostante.
Ma come si costruisce una diga? Chi è il castoro?
Fiammetta Castagnini [@Fiammetta_FMD] con il suo racconto ci aiuta a cogliere una nuova dimensione del lavoro del formatore, come un silenzioso e appassionato “costruttore di dighe”. A volte, proprio come i castori, i formatori si sentono sgraziati, goffi, fanno fatica a trascinare i materiali di costruzione. Ma quando il loro disegno di progetto prende forma si muovono disinvolti, sicuri, creando nuovi spazi di accoglienza facili da abitare. Proviamo a leggere il suo racconto, scritto in una notte insonne, con in mente la metafora del castoro…
Penso a Marco a Palermo, quando sull’autostrada che attraversa Capaci per raggiungere la scuola al quartiere Brancaccio, sente il cuore stringersi in petto; penso a Matteo e alla sua trasferta a Ponte Lambro, Milano. Quanta droga nelle parole di ancora tanti, troppi, giovani studenti delle medie e quanta rassegnazione, mi racconta lui ogni tanto. E poi penso a Irene, a Bari, stasera cenava con un panzerotto fritto per le strade bianche del centro dopo una giornata al quartiere San Paolo.
Lampadine fredde, ore in treno, la stanchezza di trascinare valigie che di solito sono piene di telecamere, circuiti, sensori e pezzi stampati in 3D… Come formatori del progetto OpenSpace ci troviamo per una settimana in quelle che vengono definite “periferie a rischio” di Palermo, Milano, Bari e Reggio Calabria. Si parla di abbandono scolastico e povertà educativa, ma c’è tanto altro.
Ti puoi preparare, certo, puoi leggere, confrontarti con gli altri che ti hanno preceduto, organizzare spostamenti e programmi didattici impeccabili. Impari presto che il piano B, e talvolta C e D, in certe classi, ti salva… “Ricalcola immediatamente il percorso” ti dici e a volte funziona. Altre volte no, non gira proprio.
Samuele Bersani cantava Chi ha la luna storta dichiara apertamente “lei non conta niente” (Sicuro precariato) e ti accorgi che in alcuni casi, per fortuna rari, è proprio così. Tu non conti niente nelle loro vite, ma contano loro per te ed è solo questo che importa. Così affronti la lunga settimana, troppo spesso solitaria.
Suonata l’ultima campanella della giornata io, Marco, Matteo e Irene torniamo ognuno al proprio albergo o B&B nella nostra nuova città e spesso si continua a lavorare, mentre intorno si vivono realtà difficili. Non più quelle della scuola, ma quelle della città. Non ci sono quasi mai zone di comfort… anche se la bellezza del luogo ci solleva, perché spesso il sole e il mare sono la colonna sonora di fondo della nostra settimana. Viviamo però il degrado, l’abbandono in cui versa il sud Italia e in generale la periferia. Lo sentiamo forte anche negli incontri casuali, non programmati.
Difficile dunque tornare leggeri da dove si è partiti. Lasciamo alle scuole telecamere, circuiti, sensori e pezzi stampati in 3D ma ci portiamo dietro le loro storie. “La mamma di tizio fa la professione, qui succede”, mi risuona da oggi nelle orecchie.
C’è anche qualche vittoria che, come si sa, sul piatto della bilancia pesa sempre di più. L’entusiasmo da stadio dei ragazzi nel vedere illuminare, chissà per quale magia, l’Arduino che fa muovere il robot. Quando lo hai messo in valigia mica ci hai pensato!
Il tassista che ti riconosce e ti paragona impropriamente al maestro di “Io speriamo che me la cavo” e dunque ti insegna lui a riconoscere l’importanza del tuo lavoro. I professori che ci accompagnano la mattina presto nelle scuole di Brancaccio, San Paolo, Ponte Lambro e quartiere Modena. Chi ti ringrazia e esce dalla classe a fine lezione stringendoti la mano. Vale di più se poi a farlo sono degli studenti di 11 anni, timidi e impacciati, quasi come a dire “per me qualcosa ha contato”.
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