Erano figli “privilegiati” di mafia

di Con i Bambini

Foto di Ryan Tauss su Unsplash

Lui si chiama Giuseppe, ma tutti lo conoscono come “Pinuzzo”, e così sa apporre la sua firma: Pinuzzo M. È nato a Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo 12 anni fa. Da quando è venuto al mondo la mamma, Maria, lo ha sempre chiamato “Pinuzzo mio” quasi a volerlo tenere stretto a sé il più possibile, solo come una mamma può e sa fare.

Hanno condiviso i loro respiri fino a quando Pinuzzo aveva 7 anni, fino a quando Maria è stata brutalmente uccisa da un colpo di pistola mentre attendeva che il figlio uscisse da scuola: il tempo di salutare la mamma ed ecco che si accascia a terra, esanime. Pronuncia le sue ultime parole: Pinuzzo mio. Qualcuno ha detto che è stato un errore, altri che era prevedibile.

L’unico dato certo è che da allora Pinuzzo non ha più sua mamma ed è rimasto solo, perché neppure il papà c’è.

Maria ha lottato contro tutti affinché quel suo figlio, l’unico, potesse diventare un uomo diverso dal padre che, pure ha tanto amato, che potesse studiare almeno fino alle scuole superiori, sognava di andarsene un giorno a Roma, abbandonando tutto e tutti, ma non ce l’ha fatta.

Pinuzzo, da quel momento si aggrappa al padre, cerca in lui quel modello umano per vendicare sua madre. Anche se suo padre in realtà, fisicamente non c’è in casa.

Però lui sa che suo papà è forte, conosce persone potenti che possono dominare il mondo, sconfiggere i deboli e “quelli che non servono”. E anche suo nonno Tore è cosi, e pure suo zio Santino. Ne ha sempre sentito parlare e lo vede, a tratti, quando torna dalle “vacanze”.

Pinuzzo ha festeggiato i suoi compleanni ricevendo come regalo la torta con la panna preparata dalla mamma Maria, spegnendo le candeline senza rendersi conto di cosa fosse poter esprimere un desiderio.

Da quando la mamma non c’è più ha imparato altri giochi, ancora più divertenti: rubare, dire parolacce, inveire contro l’insegnante quei rari giorni che non va via da scuola. E riceve tanti regali quando riesce a portare a termine un compito che gli ha dato magari lo zio (uno scippo), che lo portano a pensare che in fondo è bello diventare adulti.

Pinuzzo è uno dei tanti bambini figli della mafia, della n’drangheta, che trascorre le giornate ad immaginare dove e come rubare, che si diverte ad armeggiare utilizzando pistole vere, che sente discorsi dei grandi, che non spegne le candeline il giorno del suo compleanno ma che riceve soldi, veri, e tanti.

Uno dei tanti bambini che fanno parte di quel fenomeno crescente e pericoloso che ha raggiunto limiti oramai insopportabili e che ha spinto il Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria ad assumere provvedimenti apparentemente drastici. Ovvero ad allontanare i bambini dalle famiglie d’origine affinché possano essere rieducati, salvati e porre fine al pregiudizio di cui sono ignare vittime.

I bambini figli di boss, mafiosi, latitanti continuando a vivere nel loro habitat d’origine, non possono non trasformarsi che in cloni dei componenti della famiglia.

Sono spesso le stesse madri a chiedere aiuto, per cercare di salvare almeno loro, per se stesse purtroppo non vedono speranze. Per qualsiasi genitore, essere privato del proprio figlio è sicuramente traumatico, per un bambino è anche peggio, anche se il genitore è un mafioso. I bambini, infatti, non hanno parametri di riferimento rispetto a quello che comunemente viene definito buono o cattivo genitore: per loro la mamma ed il papà sono unici e perfetti senza riserve.

Ma la decisione di portarli via, in strutture protette, lontano dal mondo losco che per loro costituisce una sana normalità, è una decisione oramai divenuta inevitabile.

In seguito alle direttive del Tribunale di Reggio Calabria, il primo ad assumere provvedimenti cosi forti determinando le modalità ed i casi di allontanamento, si auspica che possano essere ridimensionati i danni, forse in alcuni casi addirittura permanenti.

Il problema principale, quando viene stabilito che i bambini debbano essere allontanati, è il punto oscuro che rimane sulla reale possibilità di rieducazione.

L’intervento da parte dell’autorità giudiziaria deve essere tempestivo, prima il bambino viene allontanato e forse prima viene recuperato e reimmesso in una società ove potrà diventare prima che un cittadino, un uomo.

Ovvio che una decisione così forte è parametrata alla tutela dei diritti costituzionalmente garantiti (tra i quali, in primis, la conservazione del rapporto con la propria famiglia d’origine) rispetto al pregiudizio che ne deriva in caso di permanenza.

Pertanto, nel caso di allontanamento coatto, superata la prima fase in cui si tende a mantenere, mediante interventi ad hoc, il rapporto con i genitori biologici, nel caso di fallimento o situazioni particolarmente gravi, non si può prescindere da un provvedimento ablativo e quindi di decadenza della responsabilità genitoriale.

Ma come si giunge, nella pratica, ad un provvedimento di allontanamento?

Solitamente scaturisce da una cognizione apparentemente sommaria, della situazione familiare che arriva in Tribunale a seguito della commissione di un reato. In prima battuta poco rilevante, ma che rappresenta la spia di una strada oramai avviata. L’inerzia della famiglia d’origine rispetto al fatto censurato, il contesto socio culturale, i carichi pendenti e quindi lo spessore criminale di genitori e parenti costituiscono elementi che vengono opportunamente valutati dall’autorità interessata.

La fascia d’età che interessa questi bambini, è spesso quella compresa tra i 13 ed i 16 anni. Quindi, ci si trova davanti a un minore che ha una personalità ben formata, spesso deviata per le condizioni sociali ai quali sono costretti a vivere.

In questi casi, il primo passo da compiere da parte delle autorità competenti è l’allontanamento e accolto in una struttura organizzata ad hoc, preferibilmente in un’area geografica diversa, con la immediata, seppur ancora temporanea, sospensione della responsabilità genitoriale e l’affidamento al Servizio Sociale. Ciò vuol, dire che sarà quest’ultimo ad intraprendere le decisioni nell’interesse il minore (mediche, scolastiche ecc…)

Non va sottovalutata la circostanza che solitamente il livello d’istruzione di questi minori è lacunoso, non tutti hanno proseguito neppure la scuola dell’obbligo. Prima di avviare qualsiasi percorso educativo, anzi, rieducativo, è necessario trasmettere ai ragazzi l’interesse alla partecipazione, all’ascolto, a raggiungere un obiettivo scolastico.

Magistrati, avvocati, operatori del diritto, servizi sociali, psicologi, e oramai l’uomo della strada, sono perfettamente consapevoli del trauma che ciò può comportare. Ma la necessità di tutela del minore, in tutte le sue forme, non può esimersi dal considerare che non solo si diventa genitori, ma occorre essere genitore.

Ed è quanto, purtroppo, non accade in quei contesti sociali in cui il ruolo educativo del genitore biologico viene meno, per forza di cose, in cui la povertà educativa prende il sopravvento e deve essere arginata.

Le famiglie dei clan seguono sistemi ancora arcaici e rigidi. Il primogenito è destinato a portare avanti gli interessi della famiglia (intesa anche quella dell’organizzazione mafiosa o criminale), mentre la femmina educata e costretta ad unirsi in matrimonio con uno del clan. La carcerazione costituisce una reale possibilità. Sta tutto nei programmi di famiglia.

Se un bambino cresce nel sopruso, utilizzerà il sopruso per farsi valere, se non conosce i valori della lealtà, dell’onestà, del rispetto, non potrà farli propri.

Bisogna anche considerare un altro aspetto, un ulteriore rischio anche se forse ancora non si possono fare pronostici vista la recente applicazione di tale modalità d’intervento. Ci si chiede sulla efficacia di questo sistema e quali solo le probabilità che il minore, rieducato, non riprenda la strada precedentemente abbandonata.

L’allontanamento coatto dei minori termina, di fatto, con il raggiungimento della maggiore età, e allora essi saranno liberi di scegliere se tornare a casa o proseguire per il nuovo cammino.

Probabilmente tali reazioni sono direttamente collegate al tempismo con il quale si riesce a sradicare il minore da una situazione precaria, anzi, deviante. Forse più si riesce ad intervenire precocemente, maggiori saranno le possibilità di recupero.

L’incertezza di questa modalità, che per il momento si rivela quella più efficace, non trova conforto nella certezza della tutela da parte dello stato. Il diritto di rimanere all’interno di tali strutture, infatti, è soggetto al limite del raggiungimento della maggiore età: da tale momento lo Stato non risulta in grado di proseguire oltre.

A meno che, ovviamente – ma si tratta di casi ancora più gravi- si è giunti nel frattempo ad una decadenza della responsabilità genitoriale con conseguente dichiarazione di adottabilità. In tal caso, forse, paradossalmente il minore potrà contare su una reale assiduità educativa.

In ogni caso, a prescindere da tale incertezze, non si può rimanere spettatori nella creazione di “babyboss”. E se il genitore è latitante?

In quel caso, è possibile intervenire perché il disinteresse mostrato dal genitore assente costituisce un messaggio trasmesso al figlio, quello della latitanza appunto.

Togliere un minore a mamma mafia, intervenire in suo aiuto, può contribuire alla sua crescita e prendere consapevolezza di quei valori che le organizzazioni mafiose non hanno.

Lucia Rotondi
Avvocato – Esperta di diritto di famiglia e minorile

Fonte: Dal blog di Con i Bambini -Huffingtonpost.it

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