La figura del mediatore Interculturale (e grastronomico!): un facilitatore cruciale nel progetto Youth and Food
di slowfood
Blenti Shehaj, di origine albanese, presidente dell’Associazione Multietnica dei Mediatori Interculturali (A.M.M.I.), educatore professionale e coordinatore delle progettualità interne, racconta con grande trasporto il percorso che ha condotto la sua associazione a diventare partner di tanti progetti locali, tra cui Youth and Food.
I mediatori Interculturali di A.M.M.I. sono impegnati dal 2005 nella presa in carico delle più disparate progettualità. In un ruolo professionale ormai richiestissimo in tutti i settori: sicurezza sul lavoro, salute, previdenza sociale, servizi sociali.
Tre anni fa l’associazione ha raccolto la sfida della partnership con Youth and food, facilitando la transizione dei giovani coinvolti nel passaggio dalla comunità alla vita adulta:
«La sfida è stata più avvincente di quanto pensassimo – racconta Blenti Shehaj – la nostra associazione era incaricata di mettere a disposizione due strutture residenziali per sei partecipanti e supportarli nel delicato viaggio verso l’autonomia degli adulti. Una volta compiuti i 18 anni non ci sono più le tutele previste per i minorenni, si rischia di non vedersi rinnovato il permesso di soggiorno se non si ha in mano un lavoro e l’idoneità alloggiativa. Ma il nostro compito è andato ben oltre le questioni burocratiche, abbiamo cercato di fornire loro un aiuto per affrontare le piccole sfide quotidiane: dalla gestione della casa alla puntualità al lavoro. D’altronde il ruolo del mediatore interculturale è proprio questo: non solo un traduttore simultaneo ma anche e soprattutto una persona capace di agevolare le relazioni, decodificare bisogni, facilitare le applicazioni pratiche di una legge, di una pratica amministrativa. Si è veri e propri agenti del cambiamento».
Egitto, Tunisia, Pakistan, Marocco: questi sono solo alcuni dei Paesi di provenienza dei mediatori coinvolti nel progetto Youth and Food e messi a disposizione da A.M.M.I., quasi tutti con storie di migrazioni alle spalle. In Italia, infatti, il percorso per diventare mediatore interculturale è duplice: i migranti madrelingua possono accedere a una formazione regionale certificata e seguire corsi di specializzazione; si può altrimenti accedere tramite un percorso universitario dedicato.
I professionisti con background migratorio hanno dalla loro parte un asset importante: conoscono con precisione la cultura e le dinamiche del Paese di origine, potendo fornire un supporto maggiore ai beneficiari di una specifica area geografica. Il loro contributo, inoltre, riguarda problematiche che hanno spesso vissuto in prima persona.
Tra i percorsi professionalizzanti seguiti dai ragazzi, la maggior parte aveva un contenuto legato alla cucina e al cibo; per questo è stata prevista anche la figura del mediatore gastronomico che ha affiancato i mediatori culturali assegnando una maggiore rilevanza alle tematiche dedicate al mondo gastronomico.
Durante i momenti conviviali, queste figure hanno facilitato percorsi di conoscenza reciproca dei cibi di provenienza dei rispettivi Paesi, hanno aiutato a reperire ricette tipiche per riprodurre assaggi che ricordassero le rispettive origini e proposto momenti di degustazione e condivisione di sapori nuovi. Alcuni di questi professionisti hanno seguito i corsi di Laurea dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, come Nua, una ragazza siriana che ha partecipato ad alcuni incontri.
Stefania Inacco, educatrice professionale di A.M.M.I. si è occupata del coordinamento educativo «Nel caso di Youth and Food abbiamo affrontato una sfida molto entusiasmante, abbiamo accolto dei giovanissimi ragazzi e li abbiamo guidati in un percorso di maggiore autonomia, con tutta la delicatezza del caso e accogliendo anche qualche “marachella”, tipica della giovane età.
Complessivamente per me Youth and Food è stato un progetto vincente poiché caratterizzato dalla multidisciplinarietà degli interventi, si è creato un clima intimo e familiare e, ancora una volta, si è dimostrato che il cibo può essere un importante veicolo di inclusione e di scambio.
Ci tengo a rimarcare che ho potuto percepire che il percorso ha lasciato un segno anche nei partecipanti che non lo hanno completato, a distanza di mesi alcuni ragazzi mi scrivono ancora per chiedere un consiglio e considerano i nostri operatori come dei punti di riferimento sul territorio. Ecco, questo lo ritengo forse il successo più grande: aver creato una piccola rete di salvataggio per aiutare un gruppo di giovani migranti a non sentirsi persi».
di Giada Fabiani, Slow Food
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