Come lavorare con le famiglie dei giovani autori di reato

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Il 26 marzo scorso si è tenuto a Milano il seminario territoriale promosso dal progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto”.

I partner di progetto attivi nel capoluogo lombardo, in collaborazione con il Centro per la Giustizia Minorile della Lombardia, hanno deciso di dedicare questo apuntamento al tema “Le famiglie dei giovani autori di reato”.

All’evento ha partecipato come facilitatore Andrea Prandin, pedagogista esperto in Pedagogia della famiglia e Consulenza Familiare.

Qui sotto una sintesi di quanto emerso nei quattro tavoli di lavoro, curata dai rispettivi portavoce.

Sintesi del Tavolo che affrontava la domanda
“E SE LA FAMIGLIA NON C’È? (O E SE LA FAMIGLIA NON È QUA?)”

I partecipanti hanno proposto di cambiare ulteriormente la domanda: non solo non è possibile che la famiglia non ci sia, ma non è possibile che non sia qua!

Certo, può essere che non sia con noi fisicamente, ma è senz’altro sempre presente nella mente.

Ed è una presenza forte, ingombrante.

Spesso più ingombrante proprio quando non presente.

Con la quale non è possibile non fare i conti.

Abbiamo pensato ai minorenni che hanno lasciato il loro Paese per venire in Italia. I tantissimi ragazzi che incontriamo nei nostri Servizi, anche – troppo spesso – nel Penale Minorile.

Ragazzi che hanno raggiunto l’Italia accompagnati da una “visione epica” del loro viaggio. Sempre più spesso i giovanissimi che incontriamo nei Servizi hanno lasciato il loro Paese perché davano problemi, non perché siano stati scelti come avanguardie del riscatto familiare. Sono ragazzi che in Patria hanno già manifestato difficoltà di crescita, fallimenti scolastici, talvolta hanno già commesso reati, o sono portatori di sofferenze legate alla salute mentale.

E (si) raccontano di avere un mandato di riscatto; di aver solo bisogno di documenti e lavoro.

Per noi è difficile stare al loro cospetto, divisi tra il bisogno di non distruggere la rappresentazione  (mitica) che li tiene insieme, e quello di non allearsi con un progetto che pare con evidenza irrealistico.

Chi, come e quando può svelare l’”inganno”? E permettere così a questi giovani di poggiare un progetto su fondamenta reali, e non su una menzogna?

Forse si può fare solo nel momento in cui il giovane ha iniziato a fare esperienze che gli permettano di sentire di avere valore (e così non dover poggiare il proprio valore su una immagine irreale di sé e della propria storia), e abbia trovato un “luogo sicuro” (una persona può essere un luogo sicuro!) nel quale sia possibile vedere in faccia la propria realtà senza andare in mille pezzi. O sapere di poter andare in mille pezzi, perché non si sarà soli a raccoglierli.

Un luogo sicuro è (o può essere) famiglia?

Sì. Anche la famiglia naturalmente può essere (oppure non essere) un luogo sicuro.

E su un luogo sicuro si possono poggiare le basi per un progetto di crescita o di cambiamento.

Quindi famiglia può essere tante cose. Non solo quella che ci ha generati.

Chi si sente senza famiglia soffre un tema di identità (“non sono di nessuno…” cit.)

Quante volte i ragazzi ci dicono che la loro famiglia sono gli amici. E’ il loro gruppo di coetanei.

Chi non ricorda le bande dei latinos, i cui membri erano disposti a sofferenze, pericoli e umiliazioni infinite pur di potervi appartenere. Pur di poter essere accolti in una “famiglia”, che avrebbe garantito loro appartenenza e identità.

Pensiamo alle ragazze e ai ragazzi ricongiunti. La madre li ha lasciati in patria, alle cure dei nonni, o di sorelle maggiori, e ha faticato anni per creare le condizioni per riaverli con sé. E quando finalmente riesce a portarli in Italia, deve fare i conti col fatto che i figli sanno che lei è la madre, ma non sentono di essere in famiglia! La famiglia è chi li ha cresciuti, chi loro intendono essere “famiglia”!

Pensiamo ai giovani che sono stati adottati. Famiglia sono i genitori che li hanno adottati? E’ chi li ha generati? E’ necessario averli conosciuti perché abbiano un peso sulla propria vita?

Famiglie assenti, deleganti, espulsive. Famiglie che non vogliono più saperne dei propri figli. L’esperienza dei colleghi che si sono confrontati su questo tavolo è anche questa.

Ma l’esperienza dice anche che famiglia è tante cose.

E ognuno può ricomporre qualcosa che sentirà famiglia.

Famiglie allargate, famiglie ricomposte,…

Famiglie queer, comunità di persone che si scelgono, che hanno affinità, che vogliono condividere. Dove identità e appartenenza sono frutto di una scelta.

Sintesi del Tavolo che affrontava la domanda
“COSA FUNZIONA CON LE FAMIGLIE?”

La parola “funzionare”, intanto, ha colpito i partecipanti, lasciata con un punto di domanda.

Centrale nella discussione è stata l’idea di creare uno spazio di ascolto, accoglienza, comprensione e restituzione di dignità a famiglie spesso portatrici di sentimenti di solitudine, vergogna e diffidenza verso l’Altro, percepito molto spesso come giudicante. Il contesto di intervento “coatto” andrebbe stemperato creando un ponte, una reciprocità dedicando tanta attenzione alla costruzione del setting.

Setting inteso come cornice “meta” in cui diventano centrali: la chiarezza (dei ruoli, degli obiettivi etc.), la trasparenza, “il patto di fatica” nel lavorare insieme verso una direzione co-costruita, la sospensione del giudizio, il rispetto del tempo e della fase del ciclo di vita della specifica famiglia che incontriamo, la valorizzazione delle risorse esistenti nella famiglia ma anche quelle della rete intorno che deve lavorare insieme e CON la famiglia stessa.

Da qui l’idea ancora più articolata di cucire due spazi, il primo, preliminare all’intervento, in cui condividere con le famiglie il senso del lavoro con loro, esplorare aspettative, desideri, preoccupazioni. Il secondo, spazio dedicato all’accompagnamento, in cui la famiglia non viene catapultata dall’alto ma vi accede con consapevolezza e dignità, grazie al lavoro “pre”.

Il gruppo ha ragionato sull’importanza di costruire un percorso di accompagnamento cucito intorno alla risignificazione del reato, alla ri-narrazione delle storie di vita, spesso cristallizzate in letture negative e non evolutive – di cui il reato rappresenta una sorta di megafono.

Ri-narrare allargando lo sguardo ai contesti di vita, alla cornice culturale di appartenenza, alla storia di vita familiare, dove però diventa imprescindibile anche uno sguardo autoriflessivo da parte del/degli operatori, a loro volta portatori di una storia, di una cultura, di un bagaglio di premesse e pregiudizi che, se da una parte possono rappresentare elementi di potere e sicurezza, dall’altra rischiano di entrare in risonanza e ostacolare un approccio curioso alle esistenze che si incontrano.

Infine si è sottolineata l’importanza di non darsi per scontato come risorsa al servizio delle famiglie e la possibilità di sfruttare il confronto tra famiglie, come strumento di reciprocità, attraverso la condivisione delle loro storie, che permetta di svincolarsi dalla trappola della “predeterminazione” (es. ho avuto un trascorso difficile, quindi sono destinato ad essere infelice) rilanciando l’immaginazione di altri orizzonti possibili.


Sintesi del Tavolo che affrontava la domanda

PERCHÉ NON LAVORIAMO CON LE FAMIGLIE?

Lavoriamo troppo poco con le Famiglie per tanti motivi. Eccone alcuni:

1) siamo minori-centrici: il nostro sguardo è molto concentrato sul lavoro con il ragazzo in quanto spesso non abbiamo molto tempo. ci rendiamo conto che questa è una grave mancanza.

2) non sempre la famiglia coincide con la famiglia biologica, vediamo nella famiglia “disgregata” un limite al nostro intervento. Viene fatta una distinzione fra famiglia di partenza e di arrivo: a volte dobbiamo lavorare alla separazione, alla creazione di nuovi legami.

3) non sempre i servizi, le comunità, le varie agenzie educative condividono il tipo di intervento da attuare con le famiglie, ci sono divergenze e non ci si mette d’accordo sul da farsi e sul chi fa cosa.

4) difficoltà a coinvolgere le famiglie nel lavoro: la famiglia non vuole modificarsi, a volte possono provare un senso di vergogna e quindi evitare un coinvolgimento. Alla domanda fatta alle AS Ussm: ci sono gli strumenti per lavorare con le famiglie perché non vengono utilizzate? la risposta è: ci sono servizi che hanno un livello di intervento e di accesso troppo complicato per le famiglie dei nostri ragazzi.

5) il lavoro con le famiglie non è incluso nel mandato, si fa riferimento in particolare alle ordinanze del Tribunale in cui non viene indicato nero su bianco che la famiglia deve svolgere un percorso di qualche tipo.

6) gli operatori dei servizi (educatori, assistenti) hanno paura delle interferenze sul lavoro che svolgono con il ragazzo: ci difendiamo dalle difficoltà e non vogliamo mettere in discussione il nostro sistema.

7) non lavoriamo con le famiglie degli Msna in quanto non lavoriamo con i mediatori culturali; le famiglie sono lontane e quindi le consideriamo fuori dai giochi.

Sintesi del Tavolo che affrontava la domanda
COSA CHIEDIAMO E COSA CHIEDONO A NOI LE FAMIGLIE?

Il lavoro con le famiglie è un TRENO DI FATICA (reciproca), con tanti vagoni.

Principalmente sono emerse 2 dualità di approccio “noi/loro”  (Operatori VS Famiglie).

1) OPERATORI: l’aspettativa (o più aspettative) che i familiari siano “attivi” nell’approcciarsi a noi. Che si informino, ci conoscano, si interroghino e si mettano in discussione, che siano disposti a farlo e che siano ben-disposti nei nostri confronti. L’aspettativa che siano in grado di farlo  (?!),  che abbiano le condizioni e le capacità/abilità personali per porsi in questo modo nei nostri confronti. E sappiano/siano in grado quindi di affidarsi.

FAMIGLIE: i casi di “collaborazione soddisfacente” sono rari; solitamente ci approcciano con sospetto, diffidenza, giudizio e pre-giudizio, senso di pretesa oppure delega (anche totale), sottrazione dal coinvolgimento, disinteressamento, de-responsabilizzazione. Più raramente (ma avviene!) che richiedano o ricerchino effettivamente un supporto e un sostegno di aiuto nella gestione di una situazione critica in cui riconoscono di non riuscire (più) a farcela, da soli o con i mezzi a disposizione fino a quel momento.

–>  da qui, la necessità di individuare  LINGUA(GGIO) COMUNE  tra le due parti coinvolte, tra i due “soggetti” protagonisti della relazione:  noi Operatori da una parte, i Familiari dall’altra.

Da parte nostra è necessario saper andare incontro a loro, “uscire” dai nostri modi-schemi di riferimento personali e professionali  (e aspettative nei loro confronti)  per “entrare nei loro mondi”, nelle loro specifiche realtà e contesti di riferimento, nelle loro visioni del mondo…  per trovare chiavi e modalità di interrelazione che consentano una trasmissione il più possibile efficace e a loro comprensibile del senso della nostra presenza, del nostro intervento, operare e intenzionalità.

 2) FAMIGLIE: la condizione frequente che siano “obbligati ad esserci” perché c’è il Decreto di un Giudice, l’imposizione di un’ordinanza da rispettare… un senso di costrizione (a volte anche vittimismo) e imposizione forzata a esserci, essere presenti, “collaborare”, apparire e/o mantenersi adeguati. Con la prospettiva di attesa della fine, che sia da sostenere e rispettare per un tempo (più o meno consistente) che ha un temine e una conclusione chiara, netta: c’è da tenere duro fino a lì, quanto dura ancora ‘sto supplizio, questa agonia?  Il più delle volte con rassegnazione, sconforto, rabbia, insofferenza, impazienza.

OPERATORI: anche da parte nostra avviene di sentirci “costretti” ad avere a che fare con le famiglie perché si tratta di ragazz* minorenni.

–>  da qui, uno spunto di riflessione e sollecitazione:  quale “trasformazione culturale” è necessario favorire, avviare, attivare  affinché la presenza e l’azione di supporto degli Operatori (del “servizio sociale” in senso ampio) siano viste come effettive occasioni e opportunità (di valore!) di sostegno, rilancio, ri-attivazione e non come una “condanna”, uno “stigma”?  Quale “trasformazione culturale” (da parte nostra) per far sì che la presenza e la partecipazione dei familiari (adulti, giovani-adulti) siano considerate a tutti gli effetti componenti fondamentali su cui concentrarsi, lavorare e investire azioni, attenzione, riflessioni, risorse?

Quali strumenti attivare/proporre?  Quali, che tipi di risorse sono necessarie per giungere a una tale prospettiva di riferimento?


DOMANDA DI USCITA
:

Raccogliendo i suggerimenti, le parole e gli spunti lanciati da Andrea Prandin:

quali (piccole?!) azioni concrete sono necessarie per avviare una relazione e rapporti di autentica reciprocità tra “Operatori-Servizi”  e “Familiari”?

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