Il paradigma riparativo

Accanto ai modelli ispirati al controllo, nell’ambito delle politiche orientate dall’idea della nuova penalità si pone il modello di Giustizia riparativa, noto con il termine inglese di “restorative justice”. Attualmente gli strumenti di Giustizia riparativa vengono utilizzati all’interno delle politiche criminali globali, in connessione o meno con strumenti di politica criminale maggiormente afflittivi.

Molti stati occidentali incoraggiano da almeno una ventina di anni procedure alternative di risoluzione dei conflitti (ADR, Alternative Dispute Resolution) in particolare adottati spesso per evitare costi e tempi della giustizia ‘lenta’ e ‘burocratizzata’ dei tribunali.

Il richiamo è al proliferare di molti programmi indicati come “Giustizia di vicinato”, “Giustizia di prossimità” o “Giustizia di comunità”, caratterizzati dal coinvolgimento della comunità non solo nella gestione dei conflitti ma anche nella elaborazione di progetti di prevenzione e di intervento.

I progetti di Giustizia di comunità utilizzano tecniche di risoluzione dei conflitti atte a riaffermare simbolicamente attraverso la narrazione di un conflitto il senso delle relazioni comunitarie. L’attenzione non è solo sul fatto-reato quanto sulle norme di condotta sociale e sulla capacità della comunità di trasformare, attraverso la discussione di quel particolare conflitto, stili di vita e atteggiamenti individuali e di rafforzare l’appartenenza comunitaria: attraverso le procedure di Giustizia riparativa quello che è un conflitto privato viene ad essere trasformato in un problema collettivo. Tali forme alternative di giustizia sono nate finalizzate al regolamento di litigi minori, di conflitti familiari, di vicinato, tra adolescenti, ecc.

Lo scopo di queste procedure alternative è mettere in atto una giustizia “sociale” più che “legale”, evitando quindi definizioni dei conflitti in chiave puramente formale, e incoraggiando invece forme sostanzialistiche di fare giustizia che vadano nel senso di un miglioramento delle relazioni sociali e di una maggiore presa in carico delle parti in conflitto (la nota concezione della giustizia come cura e miglioramento, che traduce l’espressione anglosassone di justice as healing). La risposta riparativa al crimine si rifà a una concezione della giustizia che si muove differentemente dalla sua tradizionale concezione retributiva e/o riabilitativa e che privilegia invece una concezione della giustizia come controllo sociale esercitato sotto forma di partecipazione sociale, di consenso, di azione comunitaria.

La Giustizia riparativa – in quanto giustizia che “cura” anziché “punire” – è orientata prevalentemente al soddisfacimento dei bisogni delle vittime e della comunità in cui viene vissuta l’esperienza di vittimizzazione. A differenza della giustizia penale “tradizionale”, nella quale, pragmaticamente, le domande fondamentali sono: “chi merita di essere punito?” e “con quali sanzioni?”, la Giustizia riparativa riconosce la centralità di un interrogativo diverso: “cosa può essere fatto per riparare il danno?”. Riparare non significa tuttavia, riduttivamente, controbilanciare in termini economici il danno cagionato attraverso il reato. La riparazione ha una valenza molto più profonda e, soprattutto, uno spessore “etico” che la rende ben più complessa del mero risarcimento.

Questo paradigma enfatizza i momenti del dialogo e del confronto come strumenti di composizione del conflitto. È – come si sostiene da più parti – una giustizia dal volto umano, che attraverso il momento del conflitto cerca di riportare ordine, armonia, in un contesto personale, relazionale, comunitario solcato dal vulnus rappresentato dal reato. L’idea è quella di restituire alla giustizia un compito pedagogico, di educare gli autori di reato ai sentimenti, alle emozioni, alle paure. Un modello di composizione dei conflitti ritenuto capace di farci sentire cosa sia giusto e cosa no, attraverso una dimensione relazionale. È un modo di intendere la penalità come strumento capace di addentrarsi nelle relazioni interpersonali tra gli attori del conflitto, di affondare il discorso della pena sul terreno della comunità e non di relegarlo unicamente come technè strumentale finalizzata solamente alla riduzione della criminalità.

La fortuna del modello riparativo si deve alla raggiunta consapevolezza dell’inefficacia di sistemi di giustizia pena­le, fondati unicamente ora su politiche della deterrenza ora sui programmi di riabilitazione: né il delitto né l’autore di reato – si sostiene – possono ormai costituire l’obiettivo cen­trale di scienze quali la criminologia o la psicologa giuridica, né tantomeno costituire i principi ispiratori di un modello penale che voglia dirsi moderno ed efficace (Debuyst, Walgrave). La funzione principale del modello riparativo è dunque “riparare” il danno subito, unica entità conoscibile e sicura nel funzionamento della giustizia. Non solo, ma essenza di questo modello è considerare il conflitto come una questione essenzialmente privata, un qualcosa che appartiene alle parti interessate al conflitto (stakeholders), ovverosia all’autore del reato, alla vittima ed alla comunità. Bazemore e Schiff definiscono la Giustizia riparativa come un processo attraverso il quale gli stakeholders del conflitto (autore, vittima e comunità) hanno l’opportunità di un coinvolgimento attivo nell’attività di riparazione del danno causato dal reato.

I principi base che sorreggono il paradigma devono includere:

  1. la riparazione del danno causato dal crimine;
  2. la partecipazione dei soggetti coinvolti nel conflitto (stakeholders);
  3. la trasformazione delle relazioni sociali all’interno di una determinata comunità (Bazemore e Schiff).

Applicare il paradigma riparativo, significa, prima di tutto, prendersi cura, con modalità inedite sul piano socio-istituzionale, di comportamenti cosiddetti antisociali e/o antigiuridici che compulsivamente, immediatamente producono in noi stessi e negli altri sentimenti di rivolta, risentimento, tradimento, rabbia, desiderio di vendetta, disonore, umiliazione, incomprensione, senso di colpa.

Nelle pratiche di Giustizia riparativa, quindi, l’attenzione è posta sulle relazioni piuttosto che sulla punizione: l’obiettivo è quello di restituire alla vittima e all’autore di un reato un senso di identità all’interno della comunità. Il ‘riconoscimento del volto dell’altro’, diviene lo slogan all’interno del quale si muovono i principali modelli di Giustizia riparativa (almeno in ambito europeo) e le principali teorizzazioni in tema di Giustizia informale, intesa come luogo nel quale è possibile parlare e ri-conoscersi pur nella difficile condizione problematica segnata dal compimento di un reato. “Io intendo la responsabilità come responsabilità per altri”, così Lévinas (1984) definisce la responsabilità e il compito del diritto penale che è il ri-allacciare relazioni lacerate dal conflitto.

Il termine ‘comunità’ riveste un ruolo cruciale all’interno dei programmi di Giustizia riparativa, sia perché rappresenta un attore fondamentale delle tecniche riparative sia perché l’inclusione o meno dell’elemento comunitario è ciò che discrimina tra loro i vari schemi di Giustizia riparativa (mediazione, conferencing, circoli). Nell’ottica comunitaria l’accento è sul primato del noi, del bene comune, della condivisione di una comune concezione di ciò che è ritenuto ‘bene’, dell’enfasi sulla responsabilità sociale piuttosto che sui diritti individuali. In quest’ottica la comunità si costituisce attraverso un processo di integrazione che renda produttivo il conflitto tra le varie culture che la animano attraverso il confronto tra diversi punti di vista e la predisposizione di un orizzonte di valori di riferimento. In quest’ottica la comunità svolge una funzione di mediazione politica, nel quale singoli interessi di parte siano elevati a interessi di tutti.

Nel paradigma riparativo si può sottolineare una giustizia per le vittime. La vittima – si sostiene – è rimasta per molto tempo estranea a ogni tipo di in­teresse da parte della dottrina criminologica e della ricerca empirica, che ha spesso focalizzato l’attenzione maggiormente sull’autore di reato. Le tradizionali scuole di pensiero giuridico-criminologiche alla base del sistema retributivo e riabilitativo hanno infatti sostanzialmente tra­scurato la figura del soggetto passivo del reato: nelle teorizzazioni della Scuola Classica non c’è posto per la vittima, in quanto il reato è considerato come un atto diretto esclusivamente contro lo stato; altrettanto, per la Scuola Positiva il reato si riassume in un fenome­no legato a fattori bio-psico-sociologici dell’autore di reato, e il diritto penale diviene mero momento di recupero, con la conseguente svalorizzazione dei bisogni e degli interessi della vittima.

Nell’ottica riparativa si intende riportare la persona che è stata danneggiata dal reato al centro del sistema penale; oltre a quella della vittima cambia anche la figura dell’autore di reato, non più semplice desti­natario di una sanzione statuale, ma soggetto attivo a cui è richiesto di rimediare praticamente alle conseguenze del reato: “Invece di pagare il suo ‘debito con la società’ attraverso l’espiazione della pena, essere in debito verso la vittima significa capire e assumersi la re­sponsabilità di ciò che si è fatto. Al posto di un astratto debito nei confronti della società (…) l’autore di reato ha un vero e proprio debito con la vitti­ma, da saldare in modo concreto” (Zehr).

Il modello riparativo di giustizia penale pone dunque la vittima e l’autore di reato in una posizione attiva nella ricerca del modo più soddisfacente di risoluzione del conflitto per entrambe le parti. Il dialogo e la mediazione diventano gli strumenti fondamentali di que­sto approccio, dove alla verità processuale o alla verità scientifica si sostituisce la verità ricostruita dalle parti attraverso il dialogo, nel quale si cercano di conciliare i due diversi aspetti della situazione conflittuale e di trova­re un accordo che sopperisca alle esigenze della vittima: il reato non è più crimen lesae majestatis e neppure il sintomo di una personalità cri­minale da trattare, ma diviene situazione conflittuale alla quale porre rimedio.

Nel paradigma riparativo, gli interessi primari dello stato, così come la salvaguardia dell’interesse pubblico, sono ridotti a obiettivi secondari: il fine principale di un sistema di Giustizia riparativa è aiutare la vittima e la comunità a trovare una solu­zione ai problemi posti dal reato (non solo il danno economico ma anche la paura, l’ansia ed il senso di vulnerabilità che la vittima e i membri della comunità hanno provato) attraverso un processo di responsa­bilizzazione costruttiva dell’autore di reato circa le conseguenze del suo comportamento criminoso, garantendo così una rapida ed equa rimozione degli effetti negativi prodotti dal reato (Bazemore e Walgrave, Zehr).

Il modello riparativo di giustizia penale comporta perciò una dif­ferente concezione della pena. Al carattere di afflittività della pena secondo i classici, e a quello di trattamento e di risocializzazione secondo il modello riabilitativo, si evidenzia adesso il connotato reintegrativo della sanzione. La sanzione riparativa diventa il risultato di una procedura, ispirata a caratteri informali (la mediazione autore-vittima, il sentencing circle oppure il conferencing) e si concretizza in una riappropriazione del conflitto tra le parti: la riparazione è al tempo stesso obbligazione per l’autore del reato, ma anche e soprattutto risarci­mento per la vittima e la comunità. È in quest’ottica di riappropriazio­ne del conflitto che nascono e si sviluppano i programmi di media­zione e di conferencing volti alla ricerca di un accor­do equo di restituzione che soddisfi le esigenze della vittima del reato e al contempo fornisca una base reale di intervento per ricostruire relazioni sociali e comunitarie.

Molti teorici della restorative justice affermano come questa pratica della giustizia sia profondamente relazionale: attraverso le procedure di Giustizia riparativa è possibile ripristinare la dignità della vittima, riconoscerne i bisogni, migliorare le relazioni sociali all’interno di una comunità: “il reato è prima di tutto una frattura delle relazioni tra l’autore e la vittima così come tra l’autore e la comunità; secondariamente la stabilità di una comunità dipende dal prendersi cura di queste fratture delle relazioni”.

Gli effetti benefici di queste tecniche riparative sono di ordine economicistico (l’abbassamento dei costi della giustizia e la deflazione del carico penale) e di ordine psicologico-sociale: le vittime tenderebbero a diminuire il loro senso astratto di paura nel confronto diretto con l’autore di reato e gli autori a loro volta tenderebbero a riconsiderare sé stessi in un’ottica di responsabilizzazione creativa piuttosto che soggetti passivi di sanzioni inflitte a seguito di procedure giudiziarie estenuanti, dove la vittima reale scompare lasciando il posto a interlocutori giudicati spesso dall’autore di reato non credibili (giudici, pubblici ministeri, assistenti sociali).

In questa ottica riparativa, fondamentale è il richiamo alla possibilità di instaurare procedure di composizione del conflitto in un’ottica di prossimità sociale. Gli attori dell’azione deviante, il mediatore, la comunità devono cercare di riannodare le fila di un tessuto comunitario.

Per concludere

Oggi in vari sistemi di giustizia sia minorile che adulto si vanno affermando progetti di Giustizia di comunità che utilizzano programmi di risoluzione dei conflitti tesi a riaffermare simbolicamente, attraverso la narrazione di un conflitto, il senso delle relazioni comunitarie. L’attenzione non è solo sul fatto-reato quanto sulle norme di condotta sociale e sulla capacità della comunità di trasformare attraverso la discussione di quella particolare situazione, stili di vita e atteggiamenti individuali e di rafforzare l’appartenenza comunitaria: attraverso le procedure di Giustizia di prossimità quello che è un conflitto privato viene ad essere trasformato in un problema collettivo. I principi base che sorreggono ogni pratica riparativa devono includere la riparazione del danno causato dal crimine, la partecipazione dei soggetti coinvolti nel conflitto (stakeholders) e la trasformazione delle relazioni sociali all’interno di una determinata comunità.

La Giustizia riparativa è essenzialmente una giustizia per le vittime nata dalla considerazione della crisi dei modelli classici dovuta all’aumento dei tassi di criminalità minorile e il conseguente pessimismo diffuso riguardo le capacità del sistema riabilitativo di prevenire la criminalità, e all’affermarsi di movimenti a tutela di soggetti deboli quali donne e bambini. Il dialogo e la mediazione diventano gli strumenti fondamentali di que­sto approccio, dove alla verità processuale o alla verità scientifica si sostituisce la verità ricostruita dalle parti attraverso il dialogo, nel quale si cercano di conciliare i due diversi aspetti della situazione conflittuale e di trova­re un accordo che sopperisca alle esigenze della vittima. La vergogna ed il senso di colpa sono qui considerati gli elementi che consentono di promuovere attività di mediazione tra autore e vittima di reato e ogni altra azione rivolta alla riparazione del danno materiale e simbolico.

In definitiva, per trarre una prima, provvisoria conclusione circa il cambio di paradigma associato alla Giustizia riparativa, si possono ricordare le parole di Luhmann: “Prima la misura del male valeva come misura della sanzione (e questo costituiva un principio di delimitazione). Attualmente, invece, ciò che rileva, prima di tutto, è una valutazione delle conseguenze – in parte delle conseguenze dell’agire penalmente perseguibile, essenzialmente però, delle conseguenze della sanzione. Questo permette di trattare la valutazione sociale dell’illecito stesso in modo variabile”. Proprio questa “variabilità” – da intendersi come flessibilità delle risposte, dosate sul tipo e sulla intensità del conflitto ed orientate a gesti positivi di riparazione e di riconciliazione – sembra rappresentare il principale punto di forza della Giustizia riparativa.

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