Cercavo un mostro, vidi un ragazzino. La storia di riconciliazione di Lucia di Mauro, familiare di una vittima innocente di mafia

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Il lavoro all’interno del penale minorile sottopone a sfide quotidiane.

I ragazzi che incontriamo sono arrabbiati, con gli adulti che non li hanno visti e accuditi, con il contesto che non li valorizza, con i coetanei che vengono percepiti come più fortunati, con gli spazi che li fanno sentire inadeguati. Spesso la risposta a questo malessere è un’azione deviante di cui i giovani autori non ne riescono a percepire la gravità, né le conseguenze. Troppo concentrati sulla loro rabbia e le loro sofferenze fanno fatica a vedere coloro che subiscono il male da loro arrecato. È attuale il sentimento e il pensiero comune che l’inasprimento delle pene e un atteggiamento più punitivo possa essere la soluzione a questo aumento dei reati giovanili, concentrando, erroneamente, l’attenzione su un’emergenza securitaria invece che sull’emergenza educativa.

Appare, quindi, inevitabile la necessità di coinvolgere le comunità territoriali, per condividere e ampliare una cultura educativa e riparativa relativa alle questioni di giustizia.

A tal proposito, nell’ambito del progetto Tra Zenit e Nadir, la cooperativa Il Calabrone in collaborazione con Libera Brescia ha organizzato due occasioni di incontro e confronto con Lucia di Mauro: uno rivolto alla cittadinanza e uno con circa 300 studenti in una scuola professionale di Brescia.

Storie come la sua, nel contesto giustizialista in cui viviamo, assumono grande valore e ci raccontano che esiste un altro modo per interrompere la catena del male generata da un’azione violenta, un modo più faticoso e doloroso, ma, forse, più efficace.

Per anni ho immaginato che l’assassino di mio marito fosse brutto, che avesse la cattiveria negli occhi, invece, quando l’ho incontrato ho visto un bambino, indifeso, che piangeva e tremava. Era un ragazzo distrutto dal male che aveva commesso, soffriva. Vederlo in quello stato mi ha fatto reagire in un modo completamente diverso da quello che mi aspettavo: l’ho abbracciato e lui è svenuto tra le mie braccia. Tenerlo in braccio per sorreggerlo mi ha fatto intenerire, ho cercato di tranquillizzarlo, l’ho rincuorato. Gli ho detto che ormai Gaetano, mio marito, non sarebbe più tornato da me, ma che insieme avremmo potuto fare molto per i ragazzi come lui”. Tra gli studenti e studentesse, in ascolto silenzioso, sono emersi sentimenti di stupore rispetto alla scelta coraggiosa di Lucia, alcuni le hanno proprio chiesto “come si fa a perdonare”, ma di fronte a questa storia alcuni hanno in parte smontato il “fascino del male” che la cultura mafiosa prova a propagare.

Lucia di fronte alla comunità racconta che “questo incontro con Antonio ha scosso le fondamenta delle mie convinzioni e ha scatenato un processo di trasformazione dentro di me. Antonio, l’assassino di mio marito, allora aveva l’età di mia figlia. Anche questo mi ha fatto riflettere profondamente. Cosa abbiamo fatto noi adulti per crescere giovani così violenti? Dove eravamo noi quando questi ragazzi hanno iniziato a delinquere?”.

Nel suo racconto Lucia sottolinea l’impossibilità di scindere gli episodi di devianza dal contesto in cui avvengono, richiama, quindi, alla responsabilità non solo di chi il reato lo compie, ma anche della comunità che necessariamente deve interrogarsi e prendere parte ai processi di giustizia. È ciò che intendono fare i percorsi di giustizia riparativa che, partendo dalla frattura generata da un reato, mirano alla sua ricomposizione attraverso l’ascolto dei bisogni delle parti e il dialogo. Non è facile, la Giustizia riparativa, oggi riforma, non è una “scorciatoia buonista” al sistema penale, anzi, è un cammino faticoso che attraversa le conseguenze dolorose generate da un reato. Le persone vanno accompagnate con rispetto, sia dei loro tempi, che della loro volontà e possibilità di scegliere liberamente se proseguire o meno nel percorso.

La richiesta dell’incontro è venuta proprio da Antonio, io non ci avrei mai pensato, all’inizio non volevo nemmeno vederlo. Il primo incontro è avvenuto per caso, da quel momento, dopo aver visto la sua sofferenza, ho accettato di incontrarlo nel carcere minorile di Nisida. Ogni volta conoscevo un pezzettino in più della sua vita e mi affezionavo a lui. È stato difficile ed è difficile ancora oggi, per anni ci siamo parlati senza guardarci negli occhi.  Dopo un po’ di tempo, mi hanno detto che Antonio poteva uscire dal carcere in libertà vigilata solo se io avessi acconsentito. Ho accettato e l’ho aiutato, perché quando è uscito dal carcere non aveva niente, l’ho aiutato come si farebbe con un figlio quando ha sbagliato. Ho iniziato a prendermi cura anche dei suoi bambini, della sua famiglia. Sapevo cosa significava per mia figlia non avere un padre e non volevo la stessa fine per quei bambini. Quest’anno, in occasione della ricorrenza dall’assassinio di mio marito, abbiamo portato insieme i fiori sulla tomba di Gaetano e Antonio ha portato anche i suoi figli. Oggi Antonio lavora in un bene confiscato alla mafia intitolato a mio marito e lavora con i disabili”.

In questo incontro con Antonio, Lucia dice di aver trovato un modo per elaborare il lutto del marito, per dare un senso al dolore: “volevo che dal sacrificio di mio marito nascesse qualcosa, solo così la sua morte sarebbe stata riscattata”.

Non è stato facile per Lucia nemmeno scontrarsi con gli altri famigliari di vittime innocenti di mafia che giudicavano negativamente la sua scelta e, più in generale, un sistema corrotto che Lucia identifica come il vero colpevole della morte del marito, tradito dalla divisa che lui stesso portava con onore e orgoglio.

Questi ragazzi sono figli nostri, di un’intera comunità, dobbiamo occuparci di loro prima che commettano reati ma anche dopo. Ci vuole un atto di coraggio, ma il cambiamento deve partire da noi. Con la mia esperienza voglio dirvi che la riconciliazione e l’amore possono rompere il ciclo della violenza e della vendetta, aprendo la strada a una nuova speranza per tutti.”

Grazie al progetto Tra Zenit e Nadir e alla collaborazione tra la cooperativa il Calabrone, partner di progetto, e dell’associazione Libera, si è potuto parlare di Giustizia riparativa partendo dalle storie di vita di Lucia e Antonio, due storie che si sono incontrate in modo violento e traumatico, che poi sono diventate una storia di riconciliazione e una possibilità per entrambi.

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