Impatto psicologico della pandemia. Un focus su scuola e famiglia.

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Webinar organizzato dalla circoscrizione del distretto Lions 108YA.

Nel periodo post pandemico sono stati registrati alti livelli di stress emozionale nei ragazzi di una certa fascia di età. Anzi sembrerebbe dagli ultimi report del Canadian Journal Psicology, che la fascia di età più colpita non sia quella dei 12-14enni, ma riguardi prevalentemente, 15-18 anni. I sintomi sono disturbi del sonno e ansia che naturalmente incidi sia sulla salute personale dei ragazzi che sulla famiglia.

Di seguito il link alla registrazione dell’evento: WEBINAR Impatto psicologico della pandemia. Un focus su scuola e famiglia.

Di seguito proponiamo l’intervento integrale della Professoressa Mariarosaria Carapelle – Docente dell’Istituto Comprensivo “A. Busciolano” – Potenza:

Grazie, grazie mille per avermi invitata. io questo pomeriggio vorrei tentare di rendervi partecipi di una storia. Quella dei ragazzi del lockdown, diciamo, di chi, come me, sta al loro fianco, cerca di stare al loro fianco. È stata al loro fianco e cercando di resistere a periodi di tempesta e anche di falsa bonaccia. Tenterò di spiegare che cosa significa insegnare in questo periodo, in classi con alunni da 10 ai 14 anni. E anche che cosa ho potuto osservare in loro che, in quanto preadolescenti, come diceva la dott.ssa Benedetto, vivono una moltitudine di cambiamenti relativi al corpo e al mondo interiore e alle relazioni sociali. Siamo a marzo 2020 e per fortuna il 1° lockdown è avvenuto ad anno scolastico già iniziato. Perchè dico per fortuna? Perchè il mio pensiero va alle classi iniziali. E faccio una piccola premessa: quando noi accogliamo i bambini di 1°media è molto importante creare un ambiente sereno, un ambiente positivo che permetta loro di accantonare paure e preoccupazioni. Un ambiente in cui possano cominciare a raccontarsi, anche a svelarsi, per generare un gruppo, un grande insieme in cui ognuno si stente protagonista. Ogni alunno, come direbbe Pennac, “è un enigma luminoso che va indagato piano piano con delicatezza perché custodisce un mondo interiore che deve poter brillare”. loro non lo sanno ancora, non ne sono ancora consapevoli. Questa prima fase del lavoro però è necessaria, anche se costa tempo, a volte costa tanta fatica e non è immediata, però è gratificante. È gratificante perché genera nell’insegnante la meraviglia della scoperta e la consapevolezza che insegnare è bello. Perché prevede una trasformazione quotidiana, non solo dell’alunno ma anche del docente. All’interno di una classe la relazione è fondamentale. Se la relazione che si genera in una classe prima è solida, non ci saranno problemi fino alla terza, perché ci sarà sempre il modo di mantenerla viva anche di fronte ad eventi improvvisi, anche ad ostacoli da superare. E la relazione però è importante non soltanto perché genera benessere, ma è importante nell’apprendimento. Se prediligo una materia piuttosto che un’altra è perché la relazione che mi lega a quella materia mi fa stare bene. Cioè apprendo quando il legame che mi conduce a quella disciplina merita la mia fiducia, e così mi metto alla prova e scelgo di andare in quella direzione, mettendoci cuore e impegno. E si può facilmente immaginare quando tutto questo sia più difficile in un periodo di dad. Però non è impossibile, perché il docente che è riuscito a stabilire una relazione in presenza, non avrà difficoltà a stabilirla anche a distanza. Ma ritorniamo a marzo 2020. Era un mercoledì quando noi abbiamo avuto la comunicazione della chiusura della scuola. Ovviamente un boato di gioia da parte dei ragazzi che erano ignari di quanto sarebbe durata questa situazione di apparente vacanza, e il lunedì successivo la mia scuola aveva già attivato la dad. Ogni classe aveva un suo “padlet” su cui inseriva i diversi materiali didattici. Però noi docenti siamo stati colti di sorpresa, come tutti. Eravamo spaventati, di fronte a un mare che si preannunciava tempestoso e ci siamo sentiti spiazzati. Per farvi comprendere meglio ciò che abbiamo provato in quei momenti, quale è stato il nostro stato d’animo, citerò una frase tratta da un libro di Enrico Galliano, scrittore e anche collega, che dice questo: “la vita è come un compito in classe solo che è a sorpresa. In un giorno in cui non hai studiato e si scrive subito in bella. Senza errori la scrivi solo se la lasci in bianco”. Ed è proprio quello che è successo a noi. Cioè noi non avevamo la possibilità della brutta copia e, per di più, eravamo impreparati. Di fronte a noi si apriva l’inaspettato. Però non ci siamo scoraggiati. Abbiamo deciso di scriverle quelle pagine bianche, anche a costo di fare degli errori. D’altronde, come diceva Rodari, “sbagliando si inventa”. e cosi ognuno di noi ha cercato di inventarsi qualcosa e soprattutto di stabilire un contatto con i ragazzi, una relazione, no? Io, per esempio, ricordo di aver scritto una lettera ai ragazzi, di averla inviata subito e di aver ricevuto poi, il lunedì pomeriggio, già le prime risposte. Leggevo dei brani per loro. Avevo detto loro di inviare una poesia, un qualcosa la mattina: il primo che si fosse svegliato avrebbe dovuto mandare un messaggio a tutti, perché era importante proprio mantenere viva questa relazione e rassicurarli. Poi, noi abbiamo passato ore e ore davanti al pc per capire come quello strumento potesse darci una mano e continuavamo a ricevere messaggi dai docenti a tutte le ore del giorno, a cercare di raddrizzare foto di immagini sfuocate e capovolte di pagine di quaderni che ci arrivavano sul registro elettronico. Però tutto questo non bastava, non bastava assolutamente. Noi lavoravamo il doppio, il triplo, ma avevamo la sensazione di aver perso tanto. Così è nata da parte dei ragazzi l’esigenza di poterci vedere, perché loro attraverso il telegiornale vedevano che i ragazzi del nord facevano le video lezioni. Quindi è nata questa forte esigenza da parte loro. All’inizio abbiamo utilizzato “zoom” e poi tutto si è evoluto con le piattaforme istituzionali. Quindi il primo collegamento io lo ricordo ancora. È stato indimenticabile perché i loro occhietti erano attoniti, spauriti, però erano commossi, erano felici. Qualcuno addirittura ha pianto. Però il problema è proprio quello di cui parlava la dott.ssa Benedetto. Cioè: e gli altri? Cioè io non volevo, come tanti altri docenti, non volevo lasciare indietro nessuno. Però come avrei potuto fare coi ragazzi che presentavano difficolta di apprendimento? Cioè, io dietro uno schermo…crollavano le mie certezze, crollava la possibilità di avere un feedback attento da parte loro, la possibilità di osservare il loro sguardo, di entrare nei loro pensieri. Ed entrare nei loro pensieri, soprattutto nei pensieri di questi ragazzini più fragili, è molto importante. Perché tantissimi hanno un deficit lessicale. Cioè alcuni termini rientrano in grandi categorie e vengono confusi. Quindi bisogna sempre accertarsi che il significato delle parole non sia stravolto, altrimenti non avviene una diretta comprensione. E vi farò un esempio. Io avevo una ragazzina, un bel pò di anni fa, che un giorno mi stupì perché per lei la parola brucare aveva un altro significato. Era un bruco che passeggiava nell’erba. Però io questo non lo sapevo. Lo scoprii quando lei, raccontando la storia che noi avevamo letto, in cui c’era un agnello che brucava l’erba, inserì tra i personaggi anche il bruco. Però io ancora oggi ringrazio quell’alunna per avermi fatto entrare nel suo mondo e avermi fatto capire come potevo uscire dal mio mondo che era cosi rigido ed entrare nel suo che era molto più fantasioso del mio. E ora il mio approccio, il mio ascolto è completamente cambiato proprio grazie a lei. E cosi, durante la dad, come avrei avrei fatto? Cioè come avrei fatto io a lavorare con Filippo, con Andrea, con Caterina? Come avrei potuto permettere che loro raggiungessero un buon livello di autonomia. E lavorare con loro significa soprattutto lavorare sullo stile attributivo. Mi spiego meglio. Un bambino, un alunno non deve mai pensare che va male a scuola perché ha la dislessia, perché ha la discalculia. Ma perché non ha ancora applicato le giuste strategie, che sono differenti da alunno ad alunno. E l’insegnante ha il compito di scoprire quali sono quelle più efficaci per quell’alunno in particolare, indipendentemente da quelle che sono indicate nelle diagnosi. Il rapporto di fiducia allievo-insegnante è fondamentale e va costruito quotidianamente. Non ci sono delle ricette, però tre sono le cose fondamentali: la prima è l’incoraggiamento. L’incoraggiamento deve avvenire attraverso le lodi, che sono orientate alla strategia, non alla prestazione. Mai. Ma alla strategia. La seconda cosa fondamentale è lo sguardo. La terza sono le carezze.

Perché lo sguardo è così importante? Perchè si cresce e quindi si diventa ciò che si vede negli occhi di chi ci educa. La potenza di uno sguardo accogliente e rassicurante ridimensiona la nostra paura, quella che abbiamo fin da piccoli di non essere mai all’altezza. Posso utilizzare tutte le parole più belle da dire ad un alunno, ma se non sono supportate da uno sguardo che esprime approvazione e serenità, non servono a nulla. Diceva d’altronde Neruda: “ognuno ha una favola dentro che non riesce a leggere da solo. Ha bisogno di qualcuno che, con la meraviglia e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti”. E perché la carezza è importante?  Perchè la carezza, che può essere una pacca sulla spalla, la carezza sui capelli, permette di percepire non solo la stima dell’insegnante ma la vicinanza, l’alleanza, il conforto. E come si può continuare a fare tutto questo durante la dad? Si può utilizzare la voce. La voce che si trasforma in carezza. E può rassicurare. Poi, degli spazi dedicati nelle video lezioni per semplificare, adattare, organizzare il lavoro pomeridiano. Io ho notato delle differenze tra la prima ondata e la seconda. La prima ondata è stata vissuta dai ragazzi con maggior ottimismo. Nonostante le ansie e la preoccupazione, la loro casa è stato un luogo dove si potevano recuperare spazi di mondo. Si cantavano slogan dai balconi, la responsabilità nell’aderire alle norme restrittive era notevole. E i ragazzi condividevano, nella maggior parte dei casi, momenti quotidiani con la famiglia. Eppure una frase ricorrente era: “ora, a cena non sappiamo di cosa parlare. Prima potevamo raccontare tutte le cose che ci succedevano a scuola, adesso non lo possiamo più fare”. Lascio a questo punto la parola ad una preadolescente del lockdown, oggi adolescente, studentessa del Liceo Scientifico Galilei che ci leggerà una poesia da lei composta lo scorso anno, che ci fa comprendere cosa lei abbia provato nei momenti di chiusura totale. Lei si percepisce come un elemento infinitamente piccolo che però a gran voce è capace di esprimere i suoi desideri. Poi scoprirà, alla fine, di essere infinito, di avere l’infinito dentro di sé e si aprirà ad una nuova immensità, che è rappresentata dalla speranza. Virginia Cacsega che declama la sua poesia: “Dentro di me”. 

 

Grazie mille Virginia. 

Virginia ci ha aperto le porte alla speranza, alla voglia di ritornare a scuola che non ha mai abbandonato gli alunni fino alla fine dell’anno scolastico. E le domande fioccavano sempre identiche: ma, prof.ssa, secondo voi quando si torna? Ma riusciremo a farlo l’esame in presenza? Ma è proprio sicura che non andremo in gita? Eh, la gita! Quanta emozione provata nell’attesa di scoprire la meta! Poi il dovuto distacco dalla famiglia, le prime forme di autonomia… e noi docenti stupiti tutte le volte, li ammiriamo e li scopriamo così diversi. Li percepiamo diversi da come li avevamo visti magari il giorno prima in classe. E ci chiediamo: ma è possibile che in una notte siano cambiati così tanto? Ebbene sì. Cominciamo con l’autobus, poi l’assegnazione delle stanze. Soprattutto le ragazze che hanno la voglia di unire i letti, far saltare i comodini perché devono stare insieme. Hanno bisogno e vogliono stare insieme perché vogliono comunicare fino a tarda notte. Hanno bisogno di esprimere sè stessi, tutti. E poi all’ora di cena la metamorfosi. Le ragazze cominciano a bussare freneticamente alla mia porta. “Professoressa, ci prestate la piastra, per favore?”. Dopodiché sono irriconoscibili. Le ragazze truccate come se fossero andate nei migliori saloni di bellezza, mini-vestiti, capelli al vento. I ragazzi indossano la camicia, dopo un bagno nel profumo. Sono tutti così belli. E pensare che quest’anno invece abbiamo fatto il tour virtuale. Ognuno da casa propria. E siamo andati a Recanati, a casa Leopardi. Una bella differenza. Quante cose che hanno perso gli alunni quest’anno. E siamo finalmente arrivati a settembre. La scuola riapre, tutti in presenza, nel rispetto delle regole anti-covid. Ingressi scaglionati, orari diversi, entrate diverse, tutti in fila indiana, come soldatini, a un metro di distanza. E qui è un problema. E i primi innamoramenti? Come la mettiamo coi primi innamoramenti? “E il ragazzo della terza B che mi piace così tanto? Eh, lui entra dall’altro ingresso, 5 minuti prima di me. Non lo vedo. Lui è al terzo piano, io sono al primo”. Niente più tutti insieme in aula magna. Niente più progetti per classi parallele. È tutto a distanza. Niente di niente. Tutti dentro le aule. Gli alunni in prima arrivano terrorizzati. C’è il distanziamento tra i banchi, l’impossibilità di muoversi per tutti. C’è la mascherina, c’è il gel. E come riuscire, quindi, a fare una buona scuola in queste condizioni? Come fare per generare una relazione di fiducia? Come traferire vitalità e dinamismo in un ambiente che si presenta cosi, vi chiedo. Come accompagnare la fioritura del gruppo se è negata la possibilità di avvicinarsi? Così è nata in noi la sfida: trovare un’opportunità nell’ostacolo. Ed è stato un gioco di sguardi. Comprendere che si poteva sorridere con gli occhi, modulare la voce, che diventava carezza. Utilizzare i gesti per simulare gli abbracci, cuori e simboli di approvazione. Tutto questo però è durato poco perchè è arrivata la seconda ondata. La classe è andata in quarantena ad ottobre. E ancora didattica digitale. E ancora una didattica come l’abbiamo definita prima, “di vicinanza”. Però il coronavirus era nelle famiglie, arrivava nelle classi, arrivava tra di noi. E volevo leggrevi uno stralcio del compito di un mio alunno. Il veleno che descrive il coronavirus che ha bussato alla porta della sua famiglia, della sua casa. E dice: “quando ho scoperto che mio padre era risultato positivo al covid-19 mi sono sentito così male da non riuscire a spiegarlo. Come se stessi cadendo in un buco cosi scuro da non riuscire a vedere la fine. Sono stato in quarantena e l’ho vissuta come un veleno che si spargeva per tutto il corpo e faceva a pezzi la mia speranza, il mio ottimismo. Ogni giorno questo veleno si diffondeva sempre più in fretta. E avevo la sensazione di riuscire a sentirlo mentre scorreva nel mio sangue. In questi mesi non ebbi nessuno con cui parlare. Mi sentivo cosi solo che riuscivo perfino ad ascoltare tutte le cose che mi passavano per la mente”. L’attenzione di questo ragazzino c’era, ma non era diretta da casa ad ascoltare l’insegnante che era in classe con il resto dei suoi compagni. Si focalizzava sui suoi pensieri negativi, quelli che si affollavano nella sua mente e a nulla servivano parole, a nulla servivano gli sguardi. Questo alunno aveva bisogno, probabilmente, soltanto di un abbraccio, di un abbraccio fisico. Quello che io stessa cercherò di dargli con le mie parole il giorno che verrà a fare l’esame. Forse sarà troppo tardi e spero proprio di no. Ma riagganciamoci al filo della storia. I ragazzi, dopo quarantene ripetute, chiusure dovute ad ordinanze regionali, hanno cominciato a percepire che quest’incubo non sarebbe mai finito. Alcuni di loro sono rimasti a casa senza nessuno, mentre i genitori sono tornati al lavoro e hanno cominciato a sentirsi soli. Alcuni hanno mostrato una maggiore irritabilità, altri si sono chiusi sempre di più, scoprendo il piacere di stare a casa, una nicchia protetta, che permette di evitare di confrontarsi e di misurarsi con gli altri. Durante la dad ci sono stati ragazzini timidi che hanno trovato nel loro spazio casalingo la forza di emergere e far sentire la propria voce. Altri che hanno evitato di parlare sostenendo che il microfono non funzionasse. E tra problemi di rete e collegamento col telefonino traballante che era da far venire il mal di mare a tutti, non abbiamo mai tirato i remi in barca. Ad ogni video lezione bisognava riagganciare un legame che sembrava essersi spezzato tutte le volte. Perfino cantando in modo inascoltabile “Tanti auguri a te” nel giorno dei loro compleanni. Ora siamo in presenza. Cosa rilevo, oggi, nei miei alunni? Un umore spento. Un’apatia di fondo. Un’incapacità di riconoscere, nominare e comunicare le proprie emozioni, come diceva prima la dott.ssa Benedetto. È come se si rifiutassero di volerle provare ancora. Chiusi in un guscio che dovrebbe proteggerli. Ma proteggerli da che cosa? Dalla paura di tornare alla normalità, dalla paura di rimanere delusi un’altra volta. “Alle volte il silenzio dice quello che il tuo cuore non avrebbe mai il coraggio di dire”, scriveva Alda Merini. Ed è proprio così. I ragazzi non hanno il coraggio di capirsi e di dire. E cosi si rifugiano nei silenzi. Ecco, dunque, che il compito dell’adulto, genitore o insegnante che sia, deve essere quello di creargli uno spazio in cui queste sofferenze possano esprimersi, possano essere comunicate, veicolate verso attività gioiose che aiutino i ragazzi, e forse anche noi, a riscoprire emozioni perdute. Io una riflessione la farei, adesso. Se i nostri ragazzi, tutti, fossero qui che cosa vorrebbero dirci? Io prendo ancora una volta in prestito le parole della Merini, i suoi versi. Lei dice: “ho bisogno di alleggerire le mie spalle perché è da troppo tempo che sono cariche di pesi che non ho voluto e non ho chiesto. E poi sotto ci sono le mie ali. Ci sono io che ho bisogno di volare”. E aiutiamo, quindi, tutti i ragazzi a volare.

Grazie.

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