Dalva. Abuso e come uscirne
di Artemisia
Da qualche giorno è nelle sale cinematografiche italiane L’amore secondo Dalva, film pieno di grazia che affronta il tema dell’incesto a partire dall’impronta che lascia sull’anima – e sul corpo – di una bambina abusata dal padre tra i 5 e i 12 anni, per esplorare il percorso di consapevolezza che la porta dapprima a riconoscere la violenza, poi a fare i conti con il trauma e iniziare a ricostruire la propria vita.
Primo lungometraggio della regista francese Emmanuelle Nicot, frutto di oltre 5 anni di lavoro di cui 4 passati a ricercare e scrivere il soggetto, il film è stato presentato l’anno scorso alla Settimana della critica del Festival di Cannes dove la giovanissima e straordinaria attrice protagonista, Zelda Samson, al suo esordio, ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione.
Il film si apre – lo schermo è completamente nero, la scena è puro suono – sul trambusto di sedie rovesciate, porte sbattute, comandi concitati e grida disperate di Dalva, che deve essere trattenuta con la forza mentre il padre viene arrestato. Lei, rimasta sola, viene trasferita in una casa rifugio per adolescenti.
“Sono interessata per ragioni personali al tema dell’affidamento ai servizi sociali, a cui ho già dedicato due cortometraggi”, ha spiegato la regista in occasione della presentazione del film a Cannes. “Questa volta volevo andare ancora più a fondo. Così ho passato un periodo in un centro di accoglienza d’emergenza per adolescenti a Forbach, nell’est della Francia, e quello che mi ha colpito è che c’erano tantissimi/e adolescenti che erano stati/e sottratti/e alle loro famiglie a causa degli abusi e maltrattamenti che avevano subito, ma che continuavano a fare blocco contro le istituzioni insieme ai propri genitori, perché appunto quello che trovavano ingiusto era l’essere stati affidati ai servizi sociali, non l’abuso subito”.
Il film racconta proprio il passaggio di Dalva dal “sentirsi vittima” di una giustizia sorda e cieca – che ha arrestato ingiustamente suo padre e che non riconosce come sua libera scelta il fatto che lei lo abbia sempre assecondato – al riconoscimento di “essere vittima” di un padre pedofilo – che le ha sottratto l’infanzia dopo averla rapida e segregata in casa, costringendola a continui traslochi, non mandandola a scuola e abusando di lei.
Dalva ha 12 anni, un voluminoso chignon di capelli ramati – tinti per volontà del padre fin da quando aveva 9 anni, come si scoprirà poi – un guardaroba di abitini-sottoveste e body di pizzo in tinte scure, piccoli orecchini con una perla alle orecchie. Non ha mai scelto o comprato un abito per sé, non sa quale sia il suo colore preferito, non ha mai avuto un cellulare, ma maneggia con destrezza eyeliner, ombretti e rossetto.
“Era importante per me che tutto passasse attraverso la riappropriazione del corpo perché questo è di fatto il tema del film, in cui Dalva passa dall’essere oggetto – oggetto del desiderio di suo padre – a essere soggetto”, spiega ancora Nicot.
La chiave per ritrovare sé stessa e la sua età, in una sorta di ritorno all’infanzia anche leggero a tratti, è la relazione: con l’equipe della casa-famiglia, in particolare con l’educatore Jayden, l’attore Alexis Manenti, a cui Dalva è affidata e che tenta a più riprese di sedurre (ispirato a fatti realmente accaduti, di cui Nicot è venuta a conoscenza durante le ricerche preparatorie). Con la compagna di stanza Samia, una ragazza nera la cui madre si prostituisce, che diventerà la sua prima “migliore amica”. Con gli altri ragazzi e ragazze “speciali” della comunità. E con le compagne e i compagni di scuola, che sanno esercitare tutta la crudeltà verbale dell’infanzia.
Dalva fugge, si ribella, si nasconde negli armadi, rifiuta il cibo, prende a pugni una compagna di classe, spacca tutto, si ferisce e si espone continuamente a rischi pur di ottenere quello che vuole: rivedere il padre in carcere. Accanto a lei Jayden c’è sempre: contiene, sostiene, guida, accompagna. La regista ci offre così un ritratto realistico, e raro, del lavoro dell’educatore, e delle educatrici, in una comunità: una professione ben poco nota e considerata, eppure essenziale per tante donne e minorenni vittime di violenza.
Sarà il padre, interpretato da Jean-Luis Coulloc’h, da cui la madre aveva scelto di separarsi “perché mi soffocava” e che aveva rapito la bambina facendo perdere le sue tracce – che alla fine le metterà davanti uno specchio capace di riflettere la sua immagine non più deformata dal plagio e dall’abuso.
Il dolore di Dalva sullo schermo è palpabile. Risucchia lo/a spettatore/trice anche grazie a un uso sapiente della telecamera, che Nicot pone continuamente all’altezza degli occhi della ragazzina, facendo immergere chi guarda il film nel mondo come lo vede lei: un’immagine frammentata, con dettagli deformati che occupano tutto il campo visivo così da cancellare il contesto e preservare il nucleo del sé – abusato – che è l’unico sé che conosce, e dunque apparentemente l’unica identità possibile.
Il recupero di sé è anche recupero del rapporto con la madre, dapprima aggredita e rifiutata, poi cercata e riconosciuta, che il film può solo tratteggiare. La ragazzina rimane in casa rifugio, il tempo passa, come testimoniano i capelli ricresciuti dopo che li aveva furiosamente tagliati durante una delle sue fughe: nella stanza condivisa fino a poco prima con Samia, che nel frattempo è andata a stare con una zia, Dalva si prepara alla prima udienza del processo.
Su questa scena il film si chiude: chi lavora nel contrasto alla violenza sa bene che il processo non è la fine di tutto, ma l’inizio di una nuova fase. E sa anche che sarà traumatizzante, ri-vittimizzante, perché Dalva sarà costretta a rivivere tutta la sua esperienza con una nuova consapevolezza.
Ora però non è più sola: la sua mano è saldamente stretta su quella della madre.
Cristiana Scoppa
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