La parola agli educatori ai tempi della DAD / 1

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Li stiamo intervistando, per capire cosa è cambiato nel loro lavoro dall’inizio dell’emergenza Covid-19. Da quando, cioè, incontrano i ragazzi e le ragazze online ed entrano nelle loro case con la webcam. Le prime testimonianze sono di Davide e Sara, attivi nei CEC di Collegno e responsabili delle attività pomeridiane aggregative, ludico-creative e di supporto allo studio.

Come è cambiato il vostro ruolo di educatori nei CEC da quando è iniziato il lockdown?

D: La mancanza della vicinanza fisica durante le attività ha giocato senz’altro un ruolo importante nella relazione uno a uno con i ragazzi, tutto sommato però la tecnologia permette di riunirsi insieme in modo diverso. Mantenendo le linee guida progettuali credo che il ruolo di educatore sia cambiato anche nella ricerca di attività nuove, che possano essere proposte a tutti secondo le risorse di ogni ragazzo (per esempio fare laboratori con materiali non troppo difficili da reperire). Dispiace un po’ aver perso l’interazione con qualche ragazzo che non sempre riesce a connettersi, sicuramente il lockdown ha giocato un ruolo negativo in questo.

S: Il lavoro educativo si fonda sulla relazione. L’educatore nel periodo della quarantena si è dovuto arrampicare nel mondo delle tecnologie. La sfida è stata mantenere una relazione educativa viva nonostante la mediazione di uno strumento molto spesso ostacolante. Di certo è stato possibile comunicare con i ragazzi ma è stato più complicato andare a fondo e seguire un percorso omogeneo. La telecamera disattivata, il microfono non funzionante, la connessione traballante sono solo esempi di come la relazione viene interrotta: prima di arrivare al concreto della relazione è necessario aggiustare lo strumento. Ma chi lo strumento non ce l’ha? Chi non sa usarlo? Chi non ha un adulto che può affiancarlo? Sono i ragazzi abbandonati a cui noi educatori dovremmo arrivare.

In che modo i CEC online si sono rivelati importanti in questo particolare periodo storico?

D: Tra i fattori positivi di questa riorganizzazione delle attività c’è la possibilità di dare ai ragazzi due ore di spazio proprio che, a maggior ragione in un periodo di quarantena, sono state secondo me una “boccata d’aria” per dei giovani che, essendo in una fase di crescita delicata, potrebbero aver assorbito il lockdown in modo amplificato. Perciò i CEC online sono diventati un modo per sfruttare il lockdown in modo positivo. Questo non solo perché le attività proposte hanno stimolato i ragazzi facendogli sperimentare attività nuove (laboratorio di cucina, informatica, fumetti, manuale, creativo, cineforum), ma anche perché ha permesso di non perder di vista il valore della socializzazione con i coetanei e con noi educatori. Secondo me la creazione di un gruppo dei CEC online (anche tramite gruppo Whatsapp) ha permesso sia di rafforzare il gruppo esistente in precedenza sia di rinnovarlo con dei nuovi iscritti.

S: I CEC hanno una struttura pensata e realizzata per il contrasto alla povertà educativa e all’abbandono scolastico. Le sfide di questo periodo storico sono esattamente le stesse. Ci troviamo a dover rimodulare alcune azioni e alcune abitudini ma l’obiettivo rimane lo stesso. I CEC oggi assumono ancora più importanza. Sono luoghi in cui rivedersi e riconoscersi: luoghi in cui recuperare la socializzazione perduta in questi mesi. Sono comunità in cui studiare, in cui trovare adulti che possano sostenere lo studio. Sono spazi creati per i ragazzi e per le famiglie che sono più in difficoltà nel barcamenarsi nella società complessa ancora prima di tutta questa faccenda.
I CEC oggi si scoprono ancora più utili: bisogna evidenziare il loro valore ma, ancora di più, amplificare il loro raggio di azione.

Essere “educatori digitali” significa (anche) entrare con le webcam nelle case e nelle famiglie: che cosa avete visto? E come questa novità ha influito sul modo di condurre e organizzare i CEC?

S: Con la webcam si ha la possibilità di unire un viso a una voce. Si ha modo di dare una fisicità alle parole. Non è scontato che si preferiscano le video-chiamate alle semplici chiamate. Tra i ragazzi si è diffusa la scoperta, però, che esistono anche le impostazioni per disattivare la telecamera. Molti non l’accendono mai per non svelare che stanno svolgendo un’altra attività nel frattempo o perché i genitori li hanno convinti che serva per proteggere la privacy. Pochi si mostrano e molto spesso lo fanno su sfondi neutri senza permettere di “entrare nelle case”. Spesso vengono interrotti da qualcuno che entra ma sono molto rapidi nel disattivare microfono e telecamera. La dimensione domestica ha lo stesso valore di intimità che aveva prima e i ragazzi vogliono proteggerla. Gli adolescenti si scoprivano prima in ambienti diversi e con persone diverse hanno dovuto rinunciare agli spazi. Ciò che delimita i vari contesti è un tasto con la telecamera sbarrata.
Per gli educatori si crea una situazione a intermittenza. Il ragazzo che improvvisamente scompare o quello che si disconnette per un tempo illimitato sono la prassi. I CEC si adattano. Si pensano attività solo in digitale ma che permettano la condivisione del momento. Si organizzano momenti che non presentino la situazione come straordinaria o pesante ma che riflettano una sensazione di normalità e di convivialità senza discostarsi dal sentimento che si viveva precedentemente. I CEC si sono dovuti rimodulare, ma non hanno cambiato obiettivo o spirito.

Come scegliete le attività? Quale quella che riscuote più successo?

S: Le attività da proporre ai ragazzi nascono dall’unione di una valutazione di noi educatori sulle possibilità che la video-chiamata ci permette e le idee e passioni dei ragazzi che partecipano. Possiamo dividere le attività in tre macro tipologie: manualità, gioco e cinema. Manualità è utile per riprendere una dimensione fisica perduta nel monitor che i ragazzi sono obbligati ad avere sempre acceso. Serve per recuperare il loro potere creativo e la fantasia persa ogni giorno passato nello stesso ambiente. La partecipazione e l’interesse sono alti, l’unica complicazione è reperire i materiali. Le attività di gioco sono le più semplici e conviviali e hanno l’obiettivo di creare il gruppo; non hanno architetture complesse ma i ragazzi hanno la possibilità di staccarsi e giocare.
Cinema, infine, riscuote particolare successo ma perché i film, le serie tv e il binge watching sono figli di questi tempi. Si nota una maggiore presenza di ragazzi nel caso si vedano film che loro conoscono, attuali o “alla moda”, ma un maggiore interesse per i film più curiosi, impegnati, adatti alla loro età ma un po’ più nascosti.

Come descrivereste i bisogni dei ragazzi in questa situazione di libertà di movimento limitata?

S: Credo che i ragazzi del CEC di Collegno stessero iniziando a vivere solo da poco la libertà di movimento. Alle medie sono ancora molto ancorati a degli spazi “chiusi” e protetti: il CEC, la casa, la scuola, l’oratorio. Il lockdown ha spostato tutta la vita che avevano in quei luoghi in uno unico, che è la casa. Lo spazio però li aiuta a dare regole precise, gli evoca la responsabilità e il ruolo che hanno. Limitando tutto alla casa il loro ruolo, le regole, le responsabilità rimangono fisse, rimangono quelle dello spazio-casa. Secondo me, i bisogni degli adolescenti fanno riferimento alla possibilità di sperimentarsi in ruoli diversi, provare regole nuove, scontrarsi con realtà differenti. Nel momento in cui hanno bisogno di esplorare il mondo fuori dalla casa e dalla famiglia per crescere sono limitati dalle mura domestiche. I bisogni possono essere vari: vedere e conoscere persone nuove, parlare con altre realtà, vivere esperienze nuove. Non è detto che tutto ciò non si possa fare in lockdown, ma bisogna trovare una strada nuova e avrà un effetto diverso.

Qual è la cosa più difficile del vostro lavoro, oggi?

D: Riuscire a far partecipare tutti, mantenere un contatto con loro negli orari diversi dai CEC, farli studiare quando non hanno voglia.

S: Tra le cose più complicate c’è l’abbandono del dialogo. Le conversazioni hanno cambiato forma. Parla quello a cui va il microfono. Possono intervenire solo le persone che hanno la connessione che funziona. I ragazzi che sono più timidi si staccano il microfono e tu educatore non hai possibilità di scoprire di più. Non c’è l’opzione di parlare uno a uno in disparte dalla conversazione principale. A chi ha rumori in sottofondo, gli altri ragazzi chiedono di disattivare il microfono così non disturba ma facendo così non può neanche intervenire. Manca la libertà di decidere a chi rivolgere la propria attenzione. L’educatore è limitato: si è obbligati a rivolgersi a chi parla più forte e non al ragazzo che ha più bisogno.

E quella più bella?

D: Vedere che ci tengono, che si preparano il materiale per il laboratorio, che chiedono di un educatore quando non c’è.

S: La cosa più bella che vivo come educatore oggi è la responsabilità che sento verso gli altri. Questo lavoro si caratterizza per intervenire nella difficoltà e per inventarsi strade nuove. In questa situazione queste premesse ci sono tutte e mi sento chiamata a realizzare un ruolo che è nato per questo. I ragazzi che partecipano, anche se i CEC sono online, danno molta soddisfazione. I ragazzi che ricompaiono dopo settimane perché prima magari avevano da fare ma si ricordano che lì possiamo accoglierli sempre sono la dimostrazione che i CEC sono importanti per loro. La cosa più bella per un educatore oggi è vedere che la comunità ha voglia di accogliere questa professione e di ripartire con lei.

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