Baby gang in Italia, sei minorenni su 100 sono aspiranti camorristi

di Con i Bambini

20081118-PONTEDERA (PISA)-CRO- GIOVANI:SOLI,IMPAURITI CERCANO TECNOLOGIE E SBALLO.EMERGENZA BULLISMO, NE SAREBBE VITTIMA UNO SU QUATTRO. Tre ragazzi fotografati questa sera a Pontedera.ANSA/FRANCO SILVI

Li vedi andare in giro in gruppo o, meglio, in branco. Sono arrabbiati, annoiati, aggressivi, frustrati. Fumano, bevono, usano droghe, hanno simboli attorno a cui saldano senso di appartenenza e identità: tatuaggi, giubbotti, musica, gruppi Facebook su cui pubblicano le loro imprese e raccattano like. Se la prendono con altri coetanei e, in generale, con chi considerano più debole di loro.

Le baby gang italiane sono una realtà: ne fanno parte sei minorenni su cento. Sono ragazzi, spesso ragazzini, che si uniscono attorno a pseudo-valori in una fase di vita in cui la regola è trasgredire, andare contro. Hanno un leader, riti di iniziazione e un’organizzazione gerarchizzata. Arrivano dalle periferie e da famiglie assenti, non necessariamente svantaggiate.

Prendono a modello le pandillas sudamericane, che pure ormai sono in Italia, oppure si atteggiano a guappi e camorristi. Quando entrano in azione seguono uno schema fisso: trovano un pretesto per agganciare la vittima, la minacciano. Passano in un attimo dall’aggressione verbale a quella fisica: pugni, calci, coltelli, umiliazioni. I loro passatempi preferiti hanno che fare con bullismo, furti ed estorsioni.

Sono cresciuti di pari passo con l’urbanizzazione rapida delle città ma, per caratteristiche, quelle italiane non sono vere bande. Piuttosto si tratta di gruppetti dediti al teppismo collettivo: sono meno militarizzati e stabili nel tempo, le rivalità con gli altri non sono così forti, riti di affiliazione e percorsi di definizione identitaria sono meno consolidati. Più che per controllare il territorio, delinquono per trasgredire.

Molte teorie spiegano la nascita delle baby gang. Secondo alcuni, si tratta di sottocultura che condivide regole e stili di vita. Per altri, la scelta di aderire è tipica di chi appartiene a classi disagiate e reagisce in questo modo alla frustrazione nata dal senso di esclusione e dalla mancanza di opportunità. Per altri ancora, si tratterebbe di una risposta di compensazione a inadeguatezza, incuria e a deprivazione affettiva, a modelli di riferimento negativi in un’epoca in cui mancanza di valori e indebolimento del mandato etico delle istituzioni (per esempio, famiglia e scuola). Che contribuirebbe a spingere i ragazzi a soddisfare i desideri fuori dal contesto familiare, a prescindere dalle classi sociali di appartenenza.

Chi fa parte di una banda giovanile sceglie il gruppo perché ha la sensazione di non farcela da solo. Il gruppo rafforza, deresponsabilizza, aiuta ad adattarsi. Il gruppo annulla ripensamenti e contraddizioni, modifica opinioni attraverso punti di vista estremi, facilita stili operativi, decisioni irrazionali e comportamenti primitivi. Il gruppo serve anche a non restare indietro, a non sentirsi emarginati. Il gruppo dà un’identità a chi crede di non averla. In cambio offre riconoscibilità immediata: un pericoloso palliativo in cui si mescolano senso di appartenenza, voglia di apparire, bisogno di affermazione dell’identità e uso della violenza come strumento di comunicazione del disagio.

 

Corrado De Rosa
Psichiatra e scrittore

Articolo originale su Huffington Post

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