È la “Mamma” che sbaglia

di Con i Bambini

Tra tirare un calcio a un pallone e sparare con una pistola c’è un confine sottile che non dovrebbe mai essere oltrepassato. Eppure quella linea viene attraversata quotidianamente tra l’indifferenza collettiva. È la frontiera tra un’adolescenza sana e una, invece, plasmata da riti, codici e leggi non scritte che mirano a trasformare un bambino in mafioso spietato.

Crescono così i figli d’onore, fanciulli il cui destino è scelto dai loro padri. Padrini di rango che costringono i figli a diventare eredi della dinastia, obbligati a immergersi nelle profondità più estreme dell’oceano criminale da cui spesso non riemergono più. E se ci riescono, lo fanno da cadaveri. O ricompaiono, da adulti, nelle celle del 41 bis.

Intere generazioni sono state falcidiate nelle guerre: in soli quindici anni, per esempio, la ‘ndrina Dragone della provincia di Crotone ha perso il capo e i suoi due figli maschi. A ottobre 2015, in Calabria erano sei i minorenni accusati di associazione mafiosa. Addestrati a non pensare. Uccidere, morire o andare in galera, sono tappe di una carriera obbligata.

Prendiamo, per esempio, quel padre che insegna l’arte della guerra al figlio di sette anni. Frequenta solo la seconda elementare, ma deve già impugnare la pistola d’ordinanza, o quel patriarca che spiegava all’erede al trono, ormai sulla soglia della maggiore età, il significato dei diversi gradi della gerarchia criminale. Ma ci sono anche ragazzini che, ai piedi dell’Aspromonte, saltano la teoria per apprendere direttamente sul campo.

A San Luca, cuore delle tradizioni dell’onorata società, dove durante l’ultima faida i più giovani sono stati istruiti su come proteggere le abitazioni delle famiglie da incursioni nemiche durante le faide. Non è fiction, è il reale certificato dalle indagini.

Del resto, la mafia calabrese prevede un vero e proprio rito iniziatico per i pargoli appena nati dei super boss: la “smuzzunata”, il battesimo da ‘ndranghetista, diritto e privilegio che spetta solo agli eredi diretti del capo branco della cosca. Un marchio che trova legittimità in un codice parallelo, ancestrale e non scritto. Tuttavia se la trasmissione culturale dei valori mafiosi è la forza dei clan, può rivelarsi anche un punto debole.

Lo sa bene il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria che dal 2012 ha iniziato ad allontanare decine di ragazzi dai nuclei mafiosi. Molti di loro lontani dai padri-padroni rinascono e sognano un futuro distante dalla ‘ndrangheta. Sono ancora pochi, ma l’idea che ci possa essere un’alternativa fa tremare le gerarchie criminali, che per secoli hanno vissuto con il mito dell’invincibilità.

 

Giovanni Tizian
Giornalista de
L’Espresso

Articolo originale su Huffington Post

Regioni:

Argomenti: