Chi rom e…chi no, intervista per La mia Banda è Pop.

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Nell’ambito de La ma banda è pop intervistiamo l’Aps Chi rom e…chi no che opera a Scampia.

La mia banda è pop, progetto regionale nell’ambito del bando Cambio Rotta promosso dal fondo di contrasto alla povertà minorile Con i bambini, è giunto a un primo step.

Chi rom e…chi no nasce nel 2002 per mettere in pratica interventi pedagogici, sociali e interculturali insieme alle comunità rom e napoletane nel quartiere di Scampia.

Risponde Flavia Lizzadri, psicologa, per Chi rom…e chi no.

In questa prima fase del progetto qual è l’impatto che La mia banda è pop ha avuto sull’associazione Chi rom e…chi no?

 

Il progetto “La mia banda è pop ha richiesto e sta richiedendo per Chi rom e…chi no, un adattamento continuo e bidirezionale dell’offerta educativa alle richieste emergenti dai diversi interlocutori sul territorio. A partire dalle segnalazioni provenienti dalle USSM e dai SST, le funzioni da rivestire possono essere svariate: talvolta più focalizzate sull’impegno al volontariato, talvolta sulla formazione e l’inserimento professionale, talvolta sul seguimento psicologico, sull’orientamento di comunità e sul sostegno alla costruzione di una funzionale identità sociale oltre che personale.

Queste diverse aree si trovano variamente organizzate sia nelle rappresentazioni dei ragazzi e delle famiglie che nelle richieste elaborate dai Servizi Sociali in virtù delle prescrizioni giudiziarie e delle storie personali. Talvolta proprio l’area più fragile è quella in cui l’impegno è meno gradito da parte dell’interessato.

Altre volte l’incastro tra aspettative e proposte funziona in modo più coerente; altre volte ancora l’aspettativa è flebile e sfumata e si costruisce in itinere nella scoperta che nasce dal confronto con il reale. In questo senso, anche il lavoro di Chi Rom non si articola in modo precostituito, ma collega, attiva, riflette, sposta, inventa luoghi, professionisti, attività in relazione al dialogo che in ogni nuovo incontro nasce.

Questo senza prescindere dai limiti di realtà e di fattibilità, anzi tentando di declinarli negli aspetti di volta in volta più significativi. Nello specifico del mio contributo, il lavoro psicologico richiede l’accesso ad una flessibilità, al contatto con il fare e con il “vivere insieme” e ad un costante ri-pensamento di metodi, significati e spazi d’incontro, impliciti nel mandato di lavorare per promuovere la costruzione di uno spazio di riflessione, elaborazione e consapevolezza accessibile all’interlocutore che vi accede spesso con motivazioni estrinseche.

 

 

Qual è il riscontro con i ragazzi coinvolti e il loro graduale inserimento nel progetto?

Il riscontro da parte dei ragazzi risulta particolarmente condizionato dall’identità e dal sentimento di appartenenza sociale che ciascuno sente rispetto al gruppo di riferimento, che può ritrovarsi nei pari o nei familiari, reali o immaginati. Nella maggior parte di essi riscontriamo un’iniziale diffidenza che appare funzionale a garantire un’apparente stabilità. Apparente perchè tali fondamenta risultano spesso costruite su un vuoto valoriale, affettivo, morale, nella inaccessibilità delle figure di riferimento in quanto tali. Insomma, i ragazzi appaiono spesso in partenza scoraggiati, a volte annoiati e scarsamente motivati, con atteggiamento deluso o supponente. Tuttavia nella maggior parte dei casi questo non preclude del tutto l’adesione al progetto e vede spesso sin dalle prime fasi l’emergere di un vissuto di scoperta e dell’ampliamento della disponibilità manifestata, confrontandosi con la possibilità di scoprire ed affiancare a quelle note nuove esperienze e parti di sè.

 

Come rispondono le famiglie dei ragazzi in questa prima fase?

Le famiglie, presenti al primo incontro in forma prevalentemente monogenitoriale (madre), appaiono al principio disorientate, silenziose e deleganti rispetto al futuro dei propri figli. Talvolta chiedono od accolgono di buon grado la proposta di un coinvolgimento diretto, che tuttavia spesso non si concretizza. La genitorialità appare spesso connotata da assenza, apprensione, fusionalità, mancanza di riconoscimento del figlio in quanto separato da sè, potenzialmente difforme alle proprie esigenze e dotato di risorse mai precedentemente valorizzate. Vediamo figure paterne assenti per decesso, trasferimento, detenzione, desiderate, stampate addosso, ma tendenzialmente inaccessibili, remote o parcellizzate. Le madri ci appaiono invece stanche, affaticate, irrigidite, sfiduciate, a volte deleganti, a volte intromissive, a volte capaci di accompagnare il percorso del figlio mantenendo un dialogo aperto con i servizi.

 

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