Il racconto del lunedì: il pozzo e il pendolo
di giovaniconnessi
Il pozzo e il pendolo
di Edgar Allan Poe
Questa rubrica del quotidiano Libertà di Piacenza “rilegge” alcuni dei racconti più belli dell’era più recente, dai classici dell’Ottocento ai contemporanei.
L’ultima immagine che è rimasta impressa nella mia mente, prima di perdere i sensi e di svenire, sono le labbra dei giudici del Tribunale dell’Inquisizione di Toledo; non udii infatti le loro parole, restai solo a guardare le loro labbra, più bianche del foglio di carta su cui adesso scrivo, le loro labbra sottili, sottili sino al grottesco, sottili per l’intensità della loro durezza, per il loro disprezzo del dolore umano. La sentenza – la terribile sentenza di morte – era stata pronunciata.
All’improvviso ritrovo il suono e il movimento, sento il battito del mio cuore. Intorno a me c’è solo il silenzio.
Dove mi trovo?
Non ho ancora aperto gli occhi, infatti. Ho paura: non di vedere cose terribili, ma di non vedere nulla. Disteso sul dorso, muovo le mie mani e le appoggio su qualcosa di umido e duro. Finalmente apro gli occhi: “il buio della notte eterna mi circonda”. L’aria è pesante, e fatico a respirare. Sono forse morto, e questa è la mia tomba da eretico?
Mi alzo in piedi e le mie mani incontrano finalmente un ostacolo, “un muro liscio, umido, diaccio”: lo seguo e presto faccio ritorno al punto di partenza. Strappo un pezzo dell’orlo del mio vestito e lo uso per misurare le dimensioni della mia prigione, ma inciampo sul fondo scivoloso e cado. Esausto, perdo i sensi.
Al mio risveglio, trovo accanto a me un pane e una brocca d’acqua: bevo e mangio avidamente. Poi torno a misurami con la cella, ma inciampo di nuovo nelle mie vesti. Sono ancora in terra, ed ecco che mi accorgo di una strana circostanza: il mio mento appoggia a terra, ma le labbra e la fronte no… inoltre, dal basso sale un’aria fetida e vapori putrefatti. Allungo un braccio e con orrore scopro di essere finito sull’orlo di un pozzo circolare, buio e profondo, apparentemente senza fine. Ma non è così. Lascio cadere un sasso nell’abisso, e dopo diversi secondi riesco a percepire un tonfo sordo, seguito dalla sua eco. Nello stesso momento, sopra di me una porta si apre e poi si richiude. I miei aguzzini mi hanno portato il vitto. Tremante, raccolgo tutte le forze e vado ad accucciarmi contro il muro, che mi dà un senso di protezione, mentre il pozzo mi provoca le vertigini. Bevo altra acqua, ma forse c’è del narcotico: cado dunque in un profondo sonno.
Una luce sulfurea entra da chissà dove, e io, riaprendo gli occhi, ora posso vedere la mia stanza di tortura, che è più piccola e angusta di quanto mi potessi immaginare. Posso vedere, appeso sul soffitto, un grosso pendolo che batte il mio Tempo, e la cui oscillazione è lenta, quasi impercettibile, ma inesorabile: nelle mie lunghe ore d’angoscia, conto le oscillazioni vibranti dell’acciaio. Posso vedere anche i topi che risalgono dal pozzo, avanzando con occhi voraci verso di me. E ancora, posso vedere di nuovo il pendolo, che stavolta mi si è avvicinato, si è abbassato, e la sua velocità è aumentata, anzi, aumenta sempre di più. E l’estremità inferiore del pendolo altro non è che una lama appuntita, “una falce d’acciaio lucente, della lunghezza di circa un piede da corno a corno con le punte rivolte all’insù, e il taglio inferiore evidentemente affilato come un rasoio”, che “fischia oscillando nell’aria”. Quel pozzo buio e profondo è forse la mia unica via di fuga?
Questo fantastico racconto claustrofobico di Poe (“The pit and the pendulum”), il primo vero e proprio maestro dell’incubo e del terrore della storia della letteratura mondiale, fu pubblicato per la prima volta nel 1842 – lo stesso anno de “Il cappotto” di Gogol. Su YouTube è disponibile (in modalità gratuita) la sua più nota trasposizione cinematografica, opera di Roger Corman del 1961 (molto liberamente ispirata al racconto originale), con protagonista il grande Vincent Price.
Il testo che leggete qui sopra è, con le modifiche dettate da esigenze di spazio e di lettura, il risultato di un laboratorio svoltosi con la classe 3 Classico B (anno 2020-21) del Liceo Gioia, all’interno del progetto Giovani Connessi.
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