Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro della paura

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La letteratura acchiappafantasmi

Cosa fare quando la paura ci attanaglia da settimane e l’infodemia ci rende più insicuri e, paradossalmente, meno informati? Come reagire di fronte alle immagini degli scaffali vuoti dei supermercati, alla penuria di disinfettanti liquidi o in gel, alle dichiarazioni talvolta antitetiche di questo o quel virologo?

Ognuno cerca la propria comfort zone, il proprio piccolo rituale per sentirsi, se non protetto, almeno non troppo a rischio, al fine di custodire il bene e chiudere fuori il male. Ci si rassicura gli uni con gli altri anche sulla base di nulla, ci si scambia consigli empirici, giusti, sbagliati, contraddittori, si sdrammatizza con battute, si condividono meme su whatsapp per strappare una risata prima del bollettino delle 18.

La mia è deformazione professionale, lo ammetto: sono andata a cercare i precedenti letterari. Sono tanti. Mi limiterò solo a due, celeberrimi: Boccaccio e Manzoni.

Non intendo certo ridurre la diffusione del Coronavirus a una mera dimensione letteraria. Il COVID-19 non è letteratura, ma sicuramente (quando riusciremo a contenerlo e lo avremo collocato nell’archivio del tempo) potrà produrre letteratura. Forse sarà un contagio culturalmente fecondo questo: genererà storie, pensieri, racconti, romanzi e poesie. Forse sta già accadendo.

Probabilmente è già nato l’embrione di un altro capolavoro: un libro che le generazioni future leggeranno in formato digitale.

È già accaduto, il passato ce lo conferma. Il celeberrimo «Decameron» di Giovanni Boccaccio nacque proprio dall’esperienza autobiografica della “Peste Nera” che colpì Firenze (e l’intera Europa) nel 1348. All’interno della narrazione si configura immediatamente la contrapposizione tra gli “appestati” e i “sani”, i dieci novellatori che isolati in una villa nel contado fiorentino per non cedere alla paura, si raccontano storie d’amore e di varia umanità. Per ricostruire una società in cui il degrado morale ha temporaneamente preso il sopravvento, puntano tutto sulla letteratura (o, come si direbbe oggi, sullo storytelling). Boccaccio stigmatizza la totale mancanza di compassione e di pietà verso i contagiati: non esistono più i legami familiari e i malati vengono abbandonati al loro destino. I poveri muoiono per strada, i servi derubano i padroni ammalati; i funerali sono solitari e le sepolture effettuate in fosse comuni. «E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano». Dall’orrore è nato il Decameron, il miglior esempio di prosa in lingua italiana, un documento sociale prezioso, un’opera immortale.

Da Alessandro Manzoni possiamo ricavare una preziosa lezione da applicare alla situazione odierna: a proposito delle reazioni alla peste del Seicento, invita a non limitarsi a valutazioni troppo superficiali e frettolose e a ragionare bene prima di aprire bocca. Nel capitolo XXXI de «I promessi sposi» «Si potrebbe… osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire». Troppo facile lasciarsi andare ai pregiudizi, alle discriminazioni, alle condanne più o meno esplicite contro i presunti “untori”. I parallelismi con la situazione attuale sono numerosi e inquietanti. Osserviamo come Manzoni descrive come i medici arrivano alla diagnosi definitiva dell’epidemia tra mille contraddizioni e la voglia di non vedere ciò che oramai era palese: «Medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: (…) In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto».

 

Pensiamo all’ostilità che noi italiani e, prima ancora i cinesi, avvertiamo chiaramente: «La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti. […] I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero interrogatòri, esami d’arrestati, d’arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere. […] S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere».

Quando si è spaventati si cerca ogni modo per esorcizzare quei mostri che non aspettano più il buio per manifestarsi. Tuttavia, il mistero, l’inspiegabile, il confronto/scontro con “l’altro”, possono diventare il fondamento di un atto creativo: la paura genera l’arte. E l’arte è capace di trasformare la malattia in racconto, il terrore in romanzo, il dolore in poesia, per rischiarare il buio dell’incertezza, alleviare il macigno dei timori inconfessati, confortare dalla preoccupazione per la sorte di chi amiamo. Dalla letteratura possiamo imparare tanto sul passato e sul presente. La letteratura ci dà lezioni di umanità e ci invita a restare umani.

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