SUPPORTO ALLO STUDIO: LA VICINANZA AI TEMPI DEL COVID-19 / Parte seconda
di DOORS
L’Arteducazione può continuare a prevenire il disagio sociale e la dispersione scolastica, anche “da remoto”?
Gli arteducatori e le arteducatrici della Cooperativa Tempo per l’Infanzia condividono con noi un DIARIO REMOTO per raccontarci come si è trasformato il servizio di affiancamento allo studio portato avanti nell’ambito di Progetto DOORS nella modalità asincrona imposta dalle regole di distanziamento fisico da lockdown.
Stavolta, agli onori della cronaca i diari remoti di Lorenzo Sartori e Marzia Alati.
IN PRIMO PIANO LA RELAZIONE
di Lorenzo Sartori
In fase di emergenza sanitaria seguo da remoto 5 ragazzi, 6 a partire da domani. Al momento tre ragazze e due ragazzi, tutti della scuola media: un ragazzo di terza, al lavoro per fare al meglio la sua tesina per l’esame, e quattro di seconda.
Con A. lavoriamo principalmente alla tesina, per sua richiesta. Recentemente ha accettato di farsi aiutare anche nei compiti ordinari delle materie scientifiche, cosa che gli avevo proposto tempo fa, su suggerimento della sua coordinatrice scolastica. Le indicazioni che mi vengono dai docenti sono preziose, perché i ragazzi tendono a non volere aiuto nelle materie in cui vanno male. Sembra un paradosso, ma non lo è: in genere si va male nelle materie che non piacciono, e dalle cose che non piacciono è umano cercare di stare alla larga.
Quando ho indicazioni di questo tipo, lo propongo ai ragazzi, faccio leva sul buon senso, ma non impongo. Do fiducia alla loro capacità di scegliere e quello che prima o poi succede è che vedo la fiducia ben riposta: quando sono loro stessi a chiedere di fare matematica ad esempio, sono convinto che funziona meglio che se fossi io a deciderlo.
Matematica e geometria sono le materie più ostiche per tutti.
Y. è il mio grande scoglio personale: ha un tale rifiuto per la materia (e forse qualche deficit) che per lungo tempo non è riuscito a tenere a memoria nemmeno le definizioni più basilari, come ad esempio cosa è un perimetro. Passaggi logici che credevo elementari, quasi dei postulati, con lui non sono altrettanto evidenti, e devo trovare il modo di spiegare e far diventare facile e chiaro anche quello che non mi sono mai posto il problema di dover dimostrare. Facciamo passi molto piccoli, uno per volta, ma li facciamo. Prima di lasciarlo, a fine incontro, mi congratulo con lui e gli chiedo se è contento di quello che ha capito: a volte mi risponde convinto di sì!
Y. tiene quasi sempre il video in off. All’inizio perché gli avevano tagliato i capelli in un modo che non gli piaceva. Poi perché sua madre si muove per casa senza velo. Nel caso di L. invece il fatto che non attiva praticamente mai il video ha altri motivi. C’è una ritrosia in lei, credo. Un tenere le distanze. So dalla sua insegnante di musica che fa lo stesso, regolarmente, nelle lezioni online. È la più trattenuta dei miei ragazzi, quella che chiede meno appuntamenti. Direi anche che è quella che ha meno bisogno di aiuto… ma non è del tutto vero. Ha un’intelligenza spiccatissima, l’ho vista apprendere e trattenere nel corso di una sola ora di incontro una quantità di nozioni da sorprendermi. Ma il fatto che prima dell’incontro quelle nozioni non le avesse, significa che per qualche motivo un incontro a due le serve. Con lei fare il simpatico non ha la presa che ha con gli altri e la relazione è ancora piuttosto superficiale. Io rispetto questo. Rispetto i suoi tempi, ogni volta incontrandola cordialmente, vivacemente, contento di essere lì e di lavorare con lei… anche perché è vero. Forse questo le darà fiducia, forse no, ma il messaggio implicito nei fatti è che io continuo a esserci, e che lei va bene così com’è. Non le chiedo niente di più che rispettare gli appuntamenti.
La paziente fiducia è il mio principale strumento di lavoro, con tutti i ragazzi. Il nostro filo di relazione è labilissimo ed è molto più in mano a loro che a me. Io non sono con loro per fare l’insegnante, ma per aiutarli nelle “cose di scuola”. Al tempo stesso, in primo piano c’è la relazione. In generale i ragazzi che frequentano lo Spazio Arteducazione trovano negli arteducatori innanzi tutto degli adulti con cui relazionarsi mettendo al centro (se lo vogliono) questioni cruciali della loro crescita, forse anche vitali. Il modo in cui siamo soliti dirlo è che “li vediamo”. Semplicemente, ci sforziamo di vederli come esseri umani e fuori da schemi di relazione precostituiti e ideologici. Questo prosegue naturalmente nell’attività da remoto che impegniamo con loro nell’emergenza.
Quando ho contattato M., per aiutarla a fare i compiti, la nostra relazione ha avuto inizio con due bidoni di seguito. Non sapevo se le scuse che adduceva fossero vere o no (oggi propendo per il sì, perché è capace di ammettere cose non facili). Quando poi ci siamo sentiti per chiarire, lei era intenzionata a rifiutare l’aiuto allo studio. Conoscendo la sua passione e il suo talento per il disegno, le ho proposto di vederci solo per disegnare. Le ho lasciato il tempo di rifletterci e nella telefonata successiva ha detto sì. Ho messo quindi in primo piano la relazione. Nelle prime settimane abbiamo disegnato. Ora lo facciamo solo una volta la settimana: le sue altre due ore settimanali sono dedicate ai compiti. Con lei non è difficile aprire spazi di chiacchiera in cui si concede di parlare di quel che le va, e non a caso mi parla di relazioni: degli amici che le mancano in questa fase, delle relazioni sentimentali a cui con me fa solo cenni che non approfondisce, ma che non riesce a non fare.
G. è l’ultima arrivata (fra poco sarà la penultima). Simpatica, esuberante, senza apparenti problemi di famiglia, ha lacune in diverse materie, ma anche lei mi sorprende per come apprende rapidamente. Mi domando se sia merito dell’uno a uno, oppure di una differenza di approccio dalla scuola, che però posso solo ipotizzare. Rispetto a come la conoscevo prima (non bene, comunque) fra i cinque ragazzi è quella meno cambiata. È l’unica italiana autoctona, e forse la relativa sicurezza economica e famigliare, ammortizza per lei gli effetti dell’emergenza.
Negli altri vedo un brusco scarto di maturazione. Il più esemplare è A., che nei locali dello Spazio era incontenibile casinista e ora manifesta una serietà e una dedizione allo studio, una determinazione a riuscir bene che mi colpiscono. Dei ragazzi che seguo è quello che più spesso ha portato l’argomento del virus e dei provvedimenti, l’inquietudine per il futuro. Voleva dedicare a questo la sua tesina per l’esame. Io già ne avevo fin sopra i capelli dell’argomento unico del periodo, ma ho pensato che fosse un buon modo per attenuare l’ansia guardando “scientificamente” alla situazione e, maneggiandola, avere la sensazione di padroneggiarla almeno un po’. Così mi è dispiaciuto per lui quando i professori l’hanno condotto a un argomento più standard come la Grande Guerra.
CHI POTEVA IMMAGINARE CHE LO SCHERMO POTESSE ARRIVARE AL CUORE?
di Marzia Alati
Tutto avviene tra le quattro mura domestiche.
Mi alzo, faccio colazione, qualche esercizio per tenere vivo il corpo, una doccia calda e buona musica per tenere alto l’animo; mi vesto, mi sistemo i capelli e via: inizia la giornata!
La giornata di lavoro dentro alle quattro mura domestiche.
La giornata di lavoro seduta alla scrivania e davanti al PC.
Ricordo che da ragazzina volevo lavorare con i ragazzi e con l’arte.
Dicevo “io da grande voglio fare un lavoro dinamico, con le persone intendo, che possa restituire la bellezza dell’incontro e della relazione, facendo esperienze indimenticabili per poter crescere, anche quando avrò 60 anni.”
Dietro ad un computer? Come è possibile?
Non nego che all’inizio fossi spaventata: non mi sentivo in grado di poter lavorare in questo modo, non volevo diventare un distributore di servizi, volevo l’incontro: nutrire e nutrirmi di quella relazione che contraddistingue il nostro lavoro.
Ora è passato più di un mese da quando ho iniziato a lavorare con i ragazzi da remoto.
Chi poteva immaginarsi che lo schermo potesse arrivare al cuore?
Beh, io no di certo. Non ho mai prediletto la comunicazione telematica; sono una romantica vecchio stampo: ho bisogno dello sguardo e soprattutto delle mani, che toccano, parlano, creano, giocano. E che ti rendono U-mano.
La giornata parte con una chiamata: entro così nelle case dei ragazzi e loro entrano nella mia. Prima di iniziare a lavorare per la scuola, facciamo un altro tipo di lavoro: “Come stai? Come stai pensando questo tempo? Che film hai visto? Cosa hai sognato stanotte? Cosa sta succedendo lì fuori? Dove abbiamo sbagliato?”.
Ora le domande si sono già trasformate: “Cosa farò la prima volta che potrò uscire? Chi incontrerò quando potrò tornare per le strade? Che festa faremo quando cominceremo a rivederci?”.
Poi i compiti. I ragazzi sono tutti molto organizzati: mandano prima i compiti per darmi la possibilità di prepararmi, puntuali nell’orario di apertura e di chiusura. Centrati e con tanta voglia di restare a galla. Si impegnano in ciò che fanno, rispettano le consegne, è l’unica cosa che gli è rimasta.
Qualcun altro invece fa fatica a reagire, occhi gonfi e poco reattivo, poco spazio per riflettere e per esprimersi, ma puntuale al nostro appuntamento, perché forse è l’unico della giornata.
Altri invece, hanno chiaro ciò di cui hanno bisogno e preferiscono partire subito, ermetici in ciò che gli succede dentro. Io mi limito a lanciare ogni volta l’opportunità di apertura, ma mai insisto: e così si inizia.
Nuove pratiche di lavoro che con fatica stiamo cercando di poter far fruttare: questo è l’oggi e con questo ci stiamo rapportando. Uno schermo che riesce a celebrare l’incontro con il ragazzo e con le famiglie, la madre il padre, ma soprattutto i fratelli e le sorelle, che partecipano a volte alle lezioni: come fosse qualcosa che aspettano anche loro.
Imparare l’italiano attraverso uno schermo?
Si può fare.
E tra un verbo e l’altro, anche la madre mi chiede come si dice cambiare al futuro: “CAMBIERÀ” le rispondo.
Lei sorride e mi ringrazia.
Cambierà ….cosa?
Ciò che sto vivendo è già un cambiamento ed è già cambiato.
Ora quello che mi chiedo è: quando torneremo a incontrarci nuovamente, con i corpi intendo? Quanto tempo passerà prima di riabbracciarci senza paura?
CAMBIERÀ… ma cosa?
Tanto, forse gran parte.
Lavoriamo oggi per poter far si che questo cambiamento sia in positivo.
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