I Mega Partner si raccontano – Biblioteca italiana per ciechi
di unioneitalianaciechi
Passiamo ora a un altro Mega Partner. È la volta della Biblioteca italiana per i ciechi «Regina Margherita» e noi abbiamo voluto far raccontare il Progetto «Bloom Again» ai due responsabili Elisabetta Franchi e Giulio Benincasa.
D: La prima domanda è per Elisabetta. Quali sono stati i benefici ottenuti finora grazie alla partecipazione al progetto?
Franchi: Direi che fin da subito i benefici sono stati molteplici. Io ho il privilegio di prendere parte al progetto rappresentando la Biblioteca italiana per i ciechi «Regina Margherita», insieme ai colleghi Giulio Benincasa e Gianluca Casalino, valorizzandone il ruolo fondamentale svolto al servizio della diffusione della cultura e dell’inclusione. Inoltre come Responsabile del Centro di Consulenza Tiflodidattica di Firenze collaboro con il Consiglio Regionale UICI della Toscana nello svolgimento del progetto all’interno della nostra regione. In ognuno degli ambiti che mi vedono coinvolta, sono stati realizzati operativamente degli interventi significativi a contrasto della povertà educativa; innanzitutto nel far comprendere alle famiglie, agli insegnati e agli educatori il concetto stesso di povertà educativa intesa come rischio di deprivazione, minore opportunità di crescita, di esperienze e conoscenze. Quindi con azioni concrete finalizzate al supporto educativo, alla formazione degli operatori, alla sensibilizzazione sulle nostre tematiche, all’informazione sulle risorse e sui servizi (si pensi in primis a quelli offerti dalla Biblioteca con la produzione di testi accessibili di qualità, attraverso l’impegno nel settore degli studi musicali), io ritengo che sia stato possibile contribuire a creare un’importantissima consapevolezza in vari ambiti. Nei destinatari del progetto, in senso ampio, abbiamo favorito la presa di coscienza delle obiettive potenzialità dei nostri bambini e ragazzi come anche la comprensione della necessità di un aiuto. Il progetto ci ha dato e ci sta dando l’opportunità di fare rete sul territorio quindi valorizzando la sinergia possibile, fruttuosa tra la realtà associativa, gli enti a supporto dell’inclusione dell’istruzione, le famiglie e la scuola; in questa rete, tessuta attraverso «Bloom Again», ciascuno può trovare un suo ruolo nell’obiettivo comune di promuovere delle occasioni di conoscenza, di relazioni e di acquisizioni di abilità sociali e di autonomie.
D: Ha incontrato difficoltà durante la prima annualità?
Franchi: La situazione critica legata ai rischi di diffusione del contagio da Covid-19 e gli impedimenti che si sono venuti a creare ha rappresentato un condizionamento piuttosto pesante e un sottofondo di incertezza che ci ha obbligato più volte a riorganizzarci, a ripensare i nostri interventi e le modalità attuative. Certamente la pandemia e le sue conseguenze ci hanno costretti a reinventare spesso con fatica ma talvolta anche in modo inaspettatamente creativo molti aspetti della nostra quotidianità, tra questi anche la comunicazione e la didattica. Si pensi alla sfida di effettuare da remoto dei workshop esperienziali progettati e prospettati in presenza… ora non so se la sfida sia stata vinta in toto ma il fatto stesso di averla raccolta e sostenuta con tenacia da parte degli organizzatori e tutti noi che abbiamo partecipato, credo possa essere un motivo di soddisfazione; soprattutto ritengo che essere riusciti a offrire servizi, supporto e strumenti proprio in un periodo così difficile di deprivazione e di assenza di stimoli, penso sia stato un risultato davvero straordinario che ha ripagato la preoccupazione di non riuscire talvolta a rispettare gli impegni assunti nel modo più adeguato.
D: La prossima domanda è per Giulio. Quali sono, secondo lei, i punti di forza della strategia progettuale?
Benincasa: Innanzitutto penso che le parole “strategia progettuale” siano davvero molto importanti perché in genere si fa riferimento ad una parola oppure all’altra. Invece io ho visto molto, anche se ovviamente non posso seguire tutte le azioni fatte: dall’UICI nel corso degli anni sui diversi territori; questo progetto mi è sembrato un po’ un culmine di tutte le attività svolte in ambito culturale, educativo, sia dal punto di vista formale che informale, in modo tradizionale e più innovativo. Quest’ultimo è l’aspetto più importante che considero come buona pratica trasferibile perché caratterizza molto questo progetto. Già quando lo lessi in fase di stesura, prima ancora che venisse presentato, pensavo che in effetti si trattasse di un progetto molto sfaccettato con diverse attività anche molto diverse fra loro e che al tempo stesso è stato potenziato. Guardo infatti il “bicchiere mezzo pieno” di tutta la situazione pandemica, alla quale faceva riferimento anche Elisabetta, perché il contesto, che ha comportato una riorganizzazione del lavoro e quindi del progetto, ha dato modo di “cavalcare” il digitale, con il suo utilizzo da parte degli operatori ma soprattutto anche da parte dei ragazzi e dalle famiglie. Tutto ciò poteva spaventare ma invece si rivelerà un grande fattore di crescita in futuro e noi con questo progetto l’abbiamo sperimentato. Un altro punto di forza che mi viene da segnalare come buona pratica trasferibile è stata l’azione di prevedere una sorta di “presa in carico”, ovvero una serie di attività scolastiche ed extra-scolastiche che portassero il progetto stesso a intervenire non solo negli ambiti strettamente legati alla scuola o alla persona “che si deve ambientare nella società”. Ho riscontrato che tutto ciò è stato svolto prima in fase di pianificazione e poi in fase di realizzazione dagli operatori con molteplici attività che hanno caratterizzato il progetto ormai da quasi due anni. Un ultimo punto di forza che volevo sottolineare è la resilienza. Riprendendo ciò che già accennavo prima, penso infatti al fatto di essere riusciti sia nelle attività da remoto sia in quelle in presenza a far fronte a questo nuovo contesto che ci ha in qualche modo stravolti: può rappresentare quindi una buona pratica che renderà forse più efficaci ma sicuramente più elastici e magari più innovativi, più “ricchi” i nostri prossimi progetti.
D: Cosa suggerirebbe dunque per migliorare il progetto?
Benincasa: Inevitabilmente si è portati a fare la parte dei “cattivi”. Ci ho pensato a lungo come persona che si occupa anche di progettazione. È giusto che per un progetto come questo ci si chieda se si hanno ben chiare le criticità e come le si vuole affrontare. Penso che dal punto di vista del miglioramento del progetto, al netto di tutto, rivolgendomi all’Ente finanziatore, avrei richiesto “meno” rispetto alla rendicontazione dal punto di vista economico delle attività non nel senso di dimostrare quali attività sono state svolte ma piuttosto quanti soldi sono stati investiti in quella determinata attività. Coloro che operavano sul campo si sono molto impegnati infatti per rendicontare tutte le attività che erano state realizzate ed erano in regola, anzi in molti casi ci si è dovuti reinventare, si è dovuto riprogettare e ricalibrare le risorse economiche. Questo ha comportato che l’impegno da dedicare alle attività progettuali dovesse invece rivolgersi a una rendicontazione che in alcuni casi ci è sembrata un po’ eccessiva. In ogni caso capisco queste richieste perché l’investimento su questo progetto è stato economicamente molto importante. Per quanto riguarda altre criticità, nell’ottica di non dire sempre che “va tutto bene, è tutto perfetto”, posso suggerire di implementare le attività da remoto e approfondire il discorso del digitale: io sono sicuro che ci sono dei margini e che si possa fare. Mi auguro infatti che in futuro si proceda verso questa direzione!
In ultimo vorrei fare una riflessione che ho focalizzato meglio negli ultimi tempi. Ritengo molto positivo che gli interventi regionali si differenzino anche in modo molto accentuato l’uno dall’altro però al tempo stesso penso, anche se non ne sono pienamente sicuro, che una maggiore omogeneità di attività, soggetti target e obiettivi avrebbe favorito uno studio che sarebbe potuto risultare interessante sia in ordine ai risultati raggiunti sia di conseguenza sulle buone pratiche da mantenere, da implementare e da rafforzare per il futuro.
D: Elisabetta, ci può raccontare un episodio che ha caratterizzato gli interventi all’interno dei vari workshop esperienziali?
Franchi: All’interno di questi workshop a me è stato assegnato il compito di trattare delle metodologie, strategie di intervento e quindi ho pensato di strutturare i contributi adattandoli un po’, per quanto possibile, ai diversi contesti regionali, secondo quanto emerso dai questionari distribuiti in precedenza e anche sulla tipologia dei partecipanti. La varietà delle situazioni territoriali, la disomogeneità delle conoscenze pregresse degli operatori ha favorito degli scambi di informazioni e di esperienze.
Per rispondere alla domanda, particolarmente significativi sono stati i momenti di confronto scaturiti da studi di “caso”, da situazioni stimolo finalizzate a una riflessione e sull’importanza della comunicazione, del supporto nella rete degli interventi e sulla corretta accoglienza dell’ausilio e del sussidio didattico. A seguito dei workshop ho avuto la possibilità di osservare, rinforzare e condividere le possibili ricadute pratiche dei contenuti trasmessi all’interno dei campi estivi I.Ri.Fo.R. della Lombardia e della Toscana. L’esperienza con quello lombardo, a Caorle, mi ha permesso di stringere relazioni e anche di confrontarmi con professionisti straordinari su linee comuni di intenti, su strategie operative. Senz’altro in quel contesto delicato perché dedicato in parte anche alla disabilità complessa ho più ricevuto che dato. Per quanto riguarda il nostro campo estivo, quello I.Ri.Fo.R. Toscana e Umbria, abbiamo accolto invece il contributo di esperienze e competenze delle terapiste dell’Istituto “David Chiossone” di Genova con degli spunti a mio avviso molto interessanti. Più che l’episodio, l’elemento davvero significativo è stato il tentativo di creare una base di conoscenze omogenee, un linguaggio comune pure nella molteplicità degli approcci e inoltre anche nelle occasioni di conoscenza e ascolto reciproco. Franco Lorenzoni dice che la “cultura è relazione”. Dunque proprio comunicare, condividendo buone prassi, conoscenze, strategie e anche difficoltà, io credo che abbia rappresentato il concretizzarsi dell’impegno progettuale di “Bloom Again”.
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