LA REGOLA DEL TALENTO

di

IL VALORE DEL MESTIERE

Cesare De Michelis, all’epoca Presidente della Marsilio Editori e Docente di Letteratura Italiana all’Università degli Studi di Padova, da pochi anni scormparso, qualche anno fa dedicava delle bellissime parole al tema del talento, al concetto del valore, all’importanza della formazione. Lo faceva nel suo testo “Dopo la modernità, l’emozionante ricerca della ‘regola del talento’” la sua prefazione al volume La regola del talento. Mestieri d’arte e Scuole italiane di eccellenza, pubblicato da Marsilio nel 2014, su impulso della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, e dedicato a 17 tra le più importanti Scuole di arti e mestieri in Italia. Parole e pensieri, quelli di De Michelis, che si applicano non solo al mondo dell’artigianato, ma che sono spunto di riflessione per tutti. Un vero manifesto dedicato al talento e al saper fare artigiano, che volentieri riportiamo in questo blog, perché possa essere di ispirazione per tutti i giovani del progetto Ad Hoc, in questo momento alle prese con la propria personale “ricerca della regola del talento”.

 

“Il talento sin dai tempi antichi, classici prima e poi medievali, nelle corti di Provenza, è al tempo stesso la misura di un peso, che inclina la bilancia spostando più in basso il piatto sul quale appoggia, e, quindi, per invenzione metaforica, qualsiasi cosa – il denaro innanzitutto – definisca la supremazia di una parte sull’altra, finché non si intervenga a ripristinare l’equilibrio compromesso bilanciandone il peso. Una misura, dunque, che diventa un valore non appena si lasciano perdere le scale numerarie per inseguirne altre di diversa natura. Il talento e il valore sono concetti un po’ alla volta trasmigrati dal solido terreno della quantità a quell’altro impalpabile, ma non meno significativo, dell’etica o dell’estetica, persino coinvolgendo le segrete pulsioni del desiderio, che sostiene la capacità con la forza dell’ambizione. Eppure, quantitativo o qualitativo, sul talento si fondano graduatorie e classifiche anche meritocratiche, capaci cioè di attribuire valore all’esperienza e all’invenzione, di apprezzare la formazione e l’apprendimento, di segnalare la capacità e l’estro di quell’esercizio inesauribile del fare che è il fondamento di ogni umana produzione e di quella dell’artefice – il maker –, o dell’artigiano, che innanzitutto si affida alle proprie mani, e poi alle tecniche o alle macchine, purché a muoverle, a gestirle, sia in ogni caso lui, con l’ingegno e le emozioni. Solo a pensarci l’artigianato evoca l’antica pratica di una manualità creativa, non ripetitiva cioè, anzi pronta a variare innovando. All’artigianato appartengono tutti i mestieri che sembrarono cancellati dalla macchina industriale, capace di sostituire il lavoro dell’uomo con una produzione seriale sempre eguale al prototipo. Il moderno si è imposto celebrando il primato della macchina, la ricchezza che ne veniva, e accettando il trionfo della copia sull’originale. L’eguaglianza si è imposta vittoriosa quando ogni cosa veniva riprodotta all’infinito: la massa si sostituiva all’individuo, la folla premeva invadente, persino l’arte, che dell’artigianato è il mitico archetipo evocando la prometeica grandezza dell’uomo, diventava multipla, riproducibile ad libitum grazie alla tecnica. Uno, cento, mille, centomila, in un crescendo inarrestabile. La modernizzazione coinvolgeva ogni aspetto della società e della vita travolgendo le stesse istituzioni dell’ancien régime e imponendo le nuove regole delle costituzioni e della democrazia, secondo le quali l’opinione pubblica e soprattutto la sua maggioranza, aveva in ogni caso ragione, nel senso che da questa dipendeva il potere, tutto il potere, politico e civile, ma anche culturale. Se si potesse disegnare nello spazio tra gli assi cartesiani il procedere della modernità, su quello verticale misurando la competenza come sull’altro orizzontale il consenso, la curva che ne uscirebbe precipiterebbe rapidamente verso il basso, col rischio di correre diritta, parallela all’ascissa. Quel che conta nella modernità, dunque, non è la qualità, oggetto di un’opinione fondata sul metodo comparativo e pertanto con il supporto di esperienza e sapere, ma la quantità, niente affatto opinabile perché misurata “scientificamente”, senza equivoci o incertezze, secondo una scala numeraria. Il numero – di copie, di voti, di spettatori – è il nuovo dio del moderno, che detta legge, distribuisce ruoli e meriti, decreta ascese e tracolli, senza discussioni. La trasformazione della modernità l’ha descritta da par suo Walter Benjamin, segnalando che cosa andava perduto: quell’aura che illuminava i capolavori, quell’antica sacralità che circondava il bello, autentica testimonianza dell’umana grandezza. Il moderno, inseguendo il progresso, che è soprattutto tecnologico, tagliava i ponti alle proprie spalle, rompeva i fili della tradizione, scioglieva la continuità millenaria della fantasia e dell’intelligenza, del pensiero e delle parole, accusando la loro cultura, il loro sapere, di conservare gli errori di un’antica ignoranza, le false verità di una vista miope e distorta. L’errore divenne il ripetere ottusi quel che già si sapeva: l’emblema della stupidità non fu più l’asino, che a qualsiasi domanda risponde sempre allo stesso modo, ma il pappagallo, che ripete senza riflettere quel che ha appena sentito. Così la decadenza dell’artigianato coincide con il moderno che l’ha vinta, colla sua affermazione su tutto, e al contrario il suo riapparire nel mondo è ulteriore conferma che la modernizzazione è finita e un tempo nuovo è ricominciato davvero, successivo al moderno, non postmoderno, ma più semplicemente post; che, quindi, del moderno, dei suoi miti, delle sue illusioni, dei suoi imperativi deve imparare a fare a meno, senza comunque tornare indietro, perché agli uomini non è consentito. Il vento della storia – vale di nuovo la lezione di Benjamin e il suo Angelus novus – soffia forte verso il futuro, ma lo sguardo si volge all’indietro, perché, se è impossibile prevedere dove andiamo, almeno resti la memoria, il ricordo, di quel che è stato e ora non c’è più. Tornare all’artigianato, alle sue professioni, dopo la sua cancellazione nella modernità, non può essere semplicemente la restaurazione di un mondo scomparso, ha un senso ben diverso e più ricco, nel segno opposto dell’innovazione, della ricerca, del rinnovamento della tradizione nel tempo della discontinuità, senza in ogni caso prescindere dall’esistenza della macchina e dei suoi prodotti di serie. Si ricomincia dalle mani e si vuole sfuggire al calco, immettendo dove è possibile e merita un segno individuale e personale, che rompa l’uniformità, rinnovi varietà e molteplicità, restituisca il piacere della sorpresa, la gioia della meraviglia. Nell’artigianato si ripropone il ruolo dell’abilità e della perizia, la forza dell’esperienza; c’è forte il primato dell’individuo, lo stupore dell’aura, il mistero del bello, la felicità della competizione, il furore del confronto; c’è, insomma, l’addio al moderno, ai suoi poco umani valori, e l’inizio di una nuova straordinaria avventura verso una meta sconosciuta e per questo meno inquietante. L’ho fatto con le mie mani esattamente come lo avevo immaginato, ed è simile a tanti altri, ma anche un poco diverso, e in questa differenza c’è al tempo stesso il segno di un’autorialità riconquistata e di un’invenzione mai compiuta. Talvolta il manufatto diventerà un prototipo e in altri casi no, secondo l’oscillazione del gusto e del risultato. D’altronde la macchina, grazie a Dio, non è in grado di fare tutto, la natura le resiste mutevole e imprevedibile e dove essa ha la meglio l’artigianato riprende potere e coraggio. Non sapere far niente con le mani non è più l’aristocratica insegna dell’intellettuale moderno, ma il marchio di una sudditanza patita, di una servitù che dura, di una libertà non riconquistata. La modernità ha fatto il suo tempo, il mondo è uscito dal Novecento cercando in ogni modo di scrollarsela di dosso, il rimpianto del buon tempo antico è sulla bocca di molti, ma della democrazia non vogliamo né sappiamo fare a meno nella società e nella politica, vorremmo invece sottrarre al gusto del pubblico il destino delle arti, rinnovando un primato della qualità e della competenza per il quale si trovano a fatica solide fondamenta, e così non ci resta che cercare un modo per cui l’autorità non derivi soltanto dalla tradizione ma anche dal “talento”; ogni volta che questo modo abbiamo la certezza di averlo nel pugno, nostro finalmente per sempre, di nuovo ci sfugge, costringendoci a inseguirlo ancora una volta. Ad aiutarci, a indicarci una strada restano le Scuole, tanto meglio se accreditate e autorevoli, se capaci cioè di non aver perso la bussola, rielaborando piuttosto con fedeltà e pazienza le lezioni dell’esperienza e della tradizione, se, appunto, di eccellenza. Dopo la modernità, dunque, resta questo tormento di Sisifo, che è, emozionante e irrinunciabile, la ricerca della ‘regola del talento’”.

Regioni

Ti potrebbe interessare

Giorno dopo giorno: un’esperienza di cittadinanza attiva con Casa Legami

di

CON LE MIE MANI Ai ragazzi e alle ragazze di AD HOC della Scuola Oliver Twist, grazie al Progetto, è stata proposta...

Dall’atelier, alla bottega, all’impresa.

di

IL VALORE DEL MESTIERE Ugo La Pietra, artista, architetto e designer, grande conoscitore e paladino dell’artigianato, figura di riferimento per le arti...

Ceramisti in erba con Agnes Duerrschnabel per il progetto Ad hoc

di

Si è svolta con successo la seconda edizione dei laboratori di ceramica per i giovani beneficiari del progetto AD HOC, nel suggestivo atelier di Agnes Duerrschnabel