SCUOLE CHIUSE. MA C’È CHI È ISOLATO DUE VOLTE
di Centro Servizi per il Volontariato (Cesv)
Scuole chiuse e didattica a distanza: cosa vuol dire per i ragazzi e le famiglie? Quali, soprattutto, le conseguenze sulla povertà educativa? Per Reti Solidali ne abbiamo parlato con Anna D’Auria, segretaria e responsabile nazionale Movimento di Cooperazione Educativa.
Le scuole avrebbero dovuto riaprire i cancelli il 3 Aprile. Ora si parla di Maggio, mentre alcuni paventano l’ipotesi che l’anno scolastico sia finito qui. Nel momento dell’emergenza, della paura, dell’interruzione delle relazioni, che si intrecciano alle preoccupazioni pratiche e, per più di qualcuno, economiche, le scuole chiuse sono un colpo alla normalità. Per i bambini, per i ragazzi, per le loro famiglie quello senza scuola è un tempo dilatato, che di normale ha ben poco. Con la didattica a distanza si cerca di recuperare almeno un po’ di quella normalità. Scoprendo, tuttavia, la frustrazione per la distanze che la didattica a distanza non riesce a colmare. «Stefano Laffi, ricercatore sociale presso l’agenzia Codici di Milano, in Congiura contro i giovani (Feltrinelli, 2014) scrive: “C’è un luogo in cui gli adulti danno appuntamento ogni giorno ai ragazzi, un luogo scelto per l’incontro e per lo scambio. È un luogo molto atteso e lungamente decantato in famiglia… Dopo le vaccinazioni, è il primo appuntamento obbligatorio della vita, è la prima e unica volta in cui viene detto: Se non ci vai ti vengono a prendere a casa”». A parlare è Anna D’Auria, segretaria e responsabile nazionale Movimento di Cooperazione Educativa. Con lei abbiamo parlato di scuola, di ragazzi, famiglie, fragilità; di didattica a distanza e di chi rischia di essere isolato due volte. A lei abbiamo chiesto se questo quotidiano potrà alla fine rivelarsi un’occasione di crescita per la scuola italiana.
Coronavirus e scuole chiuse: cosa vuol dire per i ragazzi e le famiglie?
«La scuola è il luogo fondamentale della vita societaria. Al mattino incontrarsi nel cortile della scuola, varcarne il portone, trascorrere in quello spazio un tempo certo, sicuro, è un’esperienza che scandisce la giornata, un rito per bambini, ragazzi, ma anche per i loro genitori e per tutta la società civile. Andare a scuola dà un ritmo alle nostre vite e costruisce e consolida l’appartenenza a una comunità. Per questo la chiusura delle scuole sta creando instabilità, senso di vuoto, spaesamento; vissuti che si aggiungono alla paura del contagio e delle conseguenze di questa emergenza sanitaria. C’è poi per i genitori il problema dell’organizzazione dei figli. I più attrezzati culturalmente e materialmente colgono l’occasione per seguirli più da vicino, per recuperare un tempo familiare, sperimentare nuove creatività nello stare insieme. Ma per i genitori che non possono godere del lavoro agile, che sono lavoratori precari, che non possono o non sanno come occuparsi dei figli, la chiusura delle scuole ha conseguenze gravissime. A tanti minori sta mancando il tempo e lo spazio della socialità, dell’educazione, dell’apprendimento, ma anche la possibilità di essere sottratti, anche se per un tempo limitato, alla precarietà, all’abbandono educativo, al disagio familiare ai quali li hanno destinati le condizioni e/o la geografia della loro nascita. Per i soggetti più a rischio, quelli che vivono nelle aree povere del nostro Paese, i figli di genitori non italiani, quelli con famiglie non integrate, la chiusura della scuola sta determinando un vuoto enorme di esperienza, di riconoscimento, ascolto, socializzazione che ha dei costi gravi nel loro presente e forse lo avrà nella loro crescita».
La chiusura delle scuole ha ricadute sulle relazioni. Come i ragazzi ne risentono? Quali le situazioni più fragili?
«All’inizio dell’emergenza i ragazzi hanno faticato molto ad adeguarsi alle restrizioni imposte. Chiusa la scuola hanno perso il luogo dell’incontro con i pari e si sono trovati di fronte la necessità di gestire un tempo libero, ma perimetrato dalle mura domestiche. A queste condizioni l’unica possibilità di incontro è data dall’uso del web e dei social, soprattutto quando la propria casa, per le più svariate ragioni, non è luogo di incontro. Tuttavia, il web riesce a sopperire solo in parte a questo vuoto di relazionalità. In queste enormi piazze virtuali, prive tra l’altro della mediazione degli adulti, sono proprio i soggetti più fragili dal punto di vista affettivo–relazionale, quelli più “soli” a restare coinvolti in meccanismi di esclusione: subita o prodotta. E poi c’è chi resta comunque isolato perché privo di strumentazione o di connessione, per la presenza di disabilità e l’assenza di facilitatori».
Didattica a distanza: la scuola dà per scontato un’accessibilità diffusa?
«I dati ISTAT del 2019 ci dicono che, per quanto il 76,1% delle famiglie disponga di un accesso a Internet, permangono ampie differenze tra le regioni, con un vantaggio del Centro e del Nord Italia. La marginalità digitale resta consistente in Italia e la fiducia nella didattica a distanza deve fare i conti con il rischio reale che in molti siano tagliati fuori. Il Ministero dell’Istruzione continua a dare per scontato che insegnanti ed alunni siano “equamente” attrezzati a utilizzare la didattica a distanza. Ma, quante sono le famiglie in grado di usare internet e che hanno dispositivi informatici a casa? Quanti gli insegnanti adeguatamente formati e le scuole attrezzate? Ancora nell’ultima nota ministeriale, il capo dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione invita gli insegnanti a dare i voti. Dando per scontato che dappertutto e per tutti stia funzionando il fare scuola a distanza. Le scuole e gli insegnanti si stanno dando notevolmente da fare per trovare ogni modo per essere presenti nella vita di bambini e studenti superando, seppure in parte, la forzata discontinuità della relazione educativa. Certo ci sono quelli che si mettono in gioco, si misurano con la tecnologia elaborando percorsi per i loro alunni. I maestri del Movimento di Cooperazione Educativa stanno raccogliendo in un blog, Senzascuola, le migliori esperienze e creatività per una mediazione didattica a distanza fondata su partecipazione, espressione, ascolto, coinvolgimento; che risponda al bisogno di socialità mantenendo il contatto con i pari, con gli insegnanti, con un mondo che, seppure fuori, deve potersi sentire vicino. Altri insegnanti si limitano a trasmettere schede, webinar con lezioni, compiti da eseguire, messaggini su whatsapp. Per fortuna sembrano pochi gli insegnanti che faticano (o non si mostrano motivati) nel rintracciare una qualsiasi modalità per mantenere un rapporto con gli alunni. Fin qui tutto era immaginabile e tollerabile. Ciò che non lo è, è che si alzino scudi, ci si appelli ora ai doveri in capo all’insegnante (come stanno facendo alcuni dirigenti scolastici), ora alibertà d’insegnamento, prerogative collegiali e orari di lavoro, a quanto previsto o meno nel contratto di lavoro (come fanno alcuni insegnanti e sigle sindacali)».
«Occorre trovare nell’immediato modalità per sostenere la presenza quotidiana della scuola nella vita dei minori, tutti i minori. Dare continuità all’esperienza di scuola come luogo di incontro, partecipazione, attenzione e ascolto. Soprattutto mantenere vitale il sentimento di appartenenza alla comunità scolastica. Tutto il personale della scuola, tutti quelli che hanno a che fare con l’educazione, devono sentirsi investiti del compito di dare continuità all’impresa educativa e di portarla nelle case. Pur sapendo che la didattica a distanza non potrà surrogare il tempo scuola e compensare l’assenza di relazionalità, cooperazione, apprendimento vivo che nella classe gli insegnanti sperimentano ogni giorno. Ma, di fronte a questa emergenza, è giusto e doveroso che insegnanti, dirigenti, associazioni professionali sperimentino tutte le risposte percorribili. Così come è necessario che sul piano politico-sociale vengano previste azioni consistenti per evitare che a pagare il prezzo più alto di questa crisi sociale, siano i meno protetti, le categorie sociali più svantaggiate, i minori che già da prima del coronavirus vivono in condizioni di povertà educativa, di forte esclusione sociale, di marginalità culturale. Le misure già previste a sostegno di quanti vivono in situazioni di gap tecnologico vanno garantite su tutto il territorio nazionale per evitare che la didattica a distanza accentui disparità e svantaggi per le scuole e i soggetti dei territori più depressi del Paese. Ma vanno previste anche altre misure per seguire i minori e le famiglie più a rischio: la fornitura dei pasti in sostituzione della mensa scolastica, l’intervento di educatori a casa, quando possibile, il monitoraggio costante delle condizioni di vita dei minori in situazione di isolamento. Bisogna costruire micro-reti territoriali che, facendo leva sul terzo settore, possano rappresentare il capitale sociale su cui investire, nell’emergenza e dopo. Mettere mano concretamente alla costruzione di alleanze pedagogico-politiche tra amministratori locali, associazioni di volontariato, professionali, scuole. Una rete capillare di alleanze locali per mettere in piedi azioni di discriminazione positiva: “dare di più a chi (da sempre) ha di meno”. Forse così riusciremo, una volta e per tutte, a costruire le premesse per superare l’abbandono, la dispersione e l’insuccesso scolastico, e contrastare ogni forma di discriminazione che tocca le vecchie e le nuove marginalità sociali. E a fare dell’emergenza coronavirus un’occasione per una riflessione e un agire che vada oltre l’oggi».
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