“Mamma…. devo stare chiusa in camera!” La paura ai tempi del COVID19

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Premessa: le richieste

Il telefono di rifermento degli sportelli d’Ascolto del progetto Spacelab dedicato agli studenti delle scuole superiori ed ai loro genitori squilla.

La mamma di Matteo (anni 15) mi informa che oggi non può portarmi il figlio al colloquio prenotato a suo tempo, perché un suo compagno di classe è risultato positivo al tampone Covid e deve rimanere in quarantena fiduciaria fino all’esecuzione del tampone. La mamma è  preoccupata:  Matteo si è chiuso in camera e non esce nemmeno per mangiare. La sera precedente, nel momento della cena, hanno litigato fortemente; dopo un po’ di “tira e molla” sono riusciti a convincerlo ad uscire dalla stanza ma lui ha voluto assolutamente indossare la mascherina anche solo per arrivare in cucina. Inoltre, Matteo, non vuole assolutamente che i genitori facciano anche il tampone perché in caso di risultato positivo “rimaniamo tutti chiusi dentro”.

Faccio un po’ di fatica a tranquillizzare la mamma anche perché non so nemmeno se la tranquillizzerei informandola che, per quanto ho capito dal percorso che sto facendo con suo figlio, Matteo è terrorizzato dal virus e da tutto ciò che lo riguarda. Il che vale a dire il 90% delle cose della quotidianità di questi ultimi tempi!

Semplicemente Matteo ha paura. Paura di avere il virus, paura di trasmetterlo a loro…. Paura punto.

Rituali quotidiani per anestetizzare?

Nel frattempo…le immagini con le bare sui camion militari continuano a riversarsi nelle nostre case, continuano ad essere viste e riviste. I morti continuano ad essere contati giorno dopo giorno, ed ogni giorno noi e i nostri figli sospiriamo al momento della conta… Ma accettare la  costante presenza, nella nostra testa e nel nostro cuore, della paura del virus, della malattia e dell’idea di morte, sembra essere impresa impossibile.

Forse che il ripetere mille volte lo stesso rito serva proprio a questo? Ad anestetizzare, a rendere lontano, non reale, il dolore che si nasconde dietro?

Forse la spettacolarizzazione di questi eventi serve proprio a rendere tutto virtuale, quasi finto, e quindi indolore? Come quando le immagini dei telegiornali si confondono con quelle dei film. Come quando ridiamo degli incidenti di Paperissima, senza chiederci che fine ha fatto il tipo che si è schiantato con la moto o il bambino al quale si sono incendiati i capelli con il fuoco delle candeline sulla torta di compleanno. L’importante è ridere , tanto “va tutto bene” comunque e sempre. Così stanno per finire anche i “nostri” morti di Covid, un numero ripetuto all’infinito, una volta al giorno, alla stessa ora. Ma, a pensarci bene, non è propriamente “andato tutto bene”.

E allora forse è meglio litigare sulla mascherina da mettere o no. Discutere sul fatto di starsene chiusi in camera tutto il giorno. E’ molto più facile ed accettabile essere perennemente e reciprocamente arrabbiati, piuttosto che dirsi chiaramente che abbiamo paura di ammalarci, di soffrire e di morire. Nell’arrabbiatura sulla mascherina abbiamo tanti argomenti da mettere sul banco: io dico quello che ho sentito in TV, tu dici quello che hai letto su internet e la scazzottatura diventa financo goduriosa e gioviale. Diciamocelo: litigare con i genitori è il pane quotidiano degli adolescenti, ma anche noi genitori, quando perdiamo il birillo, ci mettiamo cordialmente del nostro!

Angosce e paure

Matteo si rinchiude in camera e fa il duro. Si arrabbia. Tratta male la mamma, facendole capire che lui “sa cosa fare” mentre invece lei “non sa un bel niente”. E’ evidente che “sta facendo il di più” (gli adolescenti spesso lo fanno con i loro genitori). E i suoi genitori, mentre continuano a chiedersi stralunati quando e dove hanno sbagliato, ci rimangono giustamente male e non pensano di meritarsi un figlio che tutte le sere li mette così “in croce”.

Ma noi con i “Non devi avere paura” ci siamo cresciuti e abbiamo pensato essere giusto dire la stessa cosa ai nostri figli, quando erano piccoli e, sfortuna loro, ci ascoltavano ancora. “Non devi piangere… solo i bambini piangono”, così ci dicevano e così noi abbiamo ripetuto. Ed in questo modo, senza volerlo, abbiamo cresciuto i nostri figli a sentirsi deboli, incapaci e non all’altezza quando piangono o quando hanno paura.

Eppure, la paura è l’emozione che sentiamo dal primo momento che affrontiamo la vita. Immersi noi stessi nella cultura dell’”uomo che non deve chiedere MAI”,  abbiamo insegnato ai nostri ragazzi a sentirsi sbagliati per un sentimento normale. Non c’è sentimento più negato, più tabù, più cancellato della paura dalla nostra cultura. Una cultura concentrata sull’efficienza, sulla competenza, sull’idea illusoria ed onnipotente avere sempre le risposte per ogni problema. Nemmeno quando le risposte non le abbiamo avute  siamo riusciti ad ammettere che ogni tanto la risposta e la soluzione non esistono. Nemmeno in quel momento (con la fila di camion militari stampata nella nostra memoria) si è smesso di sbandierare l’onnipotenza della scienza e della tecnologia.

Quali risposte

Perché forse è questo il punto: che risposte bisogna dare a tutti i ragazzi e ragazze che ci dicono che hanno avuto paura? Non lo sappiamo, ci ragioniamo tutti i giorni, ma l’idea è che l’avere dato loro l’occasione di raccontarcelo mitigando la vergogna per aver provato questo sentimento è già una  risposta.

L’esserci stati, l’aver chiesto, aver dato loro la possibilità di esprimersi, sollevandoli da ogni giudizio di valore in merito e sapendo che questo non significa avere la soluzione. E quindi sollevandoci anche NOI (operatori, educatori, genitori ecc.) del senso di colpa di non essere “capaci”, “preparati” quando non abbiamo risposte, ricette, cure, ecc.

Ma a volte ci chiediamo: quante lacrime non accolte, non ascoltate, non dette e non condivise, poi con il tempo, lentamente ma inesorabilmente, sono diventate rabbia, sfiducia, solitudine, dolore oppure peggio ancora, sintomo o dipendenza?

Quante occasioni di asciugare le lacrime sulle guance di chi riesce ad ammette di avere paura abbiamo perso e continueremo ancora a perdere mentre ci affanniamo spasmodicamente nella ricerca delle risposte efficienti, risolutive, salvifiche e onnipotenti?

Dare tempo e spazio all’ascolto

Negli sportelli d’ascolto del progetto Spacelab e negli interventi di supporto alle famiglie in fondo non facciamo altro che dare un tempo ed uno spazio per essere ascoltati.

In molti casi questo tempo e questo spazio sono d’aiuto per il semplice fatto che si mettono al centro dell’attenzione proprio le emozioni di cui sembra che nella vita reale non si può più parlare. Non siamo messi bene, però. Si capisce?

Quando rivedrò Matteo ed avrò occasione di incontrare i suoi genitori non dirò nulla di tutto questo. Le arrabbiature verranno fuori, i rimproveri pure, le lamentele reciproche anche … con la speranza che dopo aver dato adeguato tempo e spazio a tutta questa “fuffa”, ci possa essere  tempo e spazio per dire le cose come stanno, senza doverci condire  sopra, senza distorcere le cose per sentirci all’altezza. Perchè questo permette di sentirsi meno sbagliati e meno soli, proprio perché siamo riusciti (almeno) a condividere le  paure.

Corrado Brignoli, Psicologo

 

 

 

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