Che cosa posso fare io?

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Note a margine di 3 anni di Sakidō, il progetto sul Ritiro Sociale in Adolescenza in Provincia di Varese 


Quando si parla di contemporaneità, di qui-e-ora, è sempre molto difficile trovare delle risposte. Nel mondo che abitiamo – veloce, esigente – è già incredibilmente complesso individuare le domande, figuriamoci le risposte. Soprattutto perché le risposte, tante volte, nascondono giudizi. E i giudizi, ancora più spesso, nascondono paure. Eppure le risposte farebbero comodo, a volte. Davanti alle migliaia di adolescenti che si ritirano dal mondo e si chiudono in camera, per esempio, le risposte sono l’unica cosa che genitori, amici, insegnanti cercano. “Perché?” “Come se ne esce?” “Andrà tutto bene?”. Ma in 3 anni di Progetto Sakidō per prevenire e contrastare il Ritiro Sociale in Adolescenza in Provincia di Varese, quello che è emerso, è che non ha senso cercare risposte se prima non ci si è fatti le domande corrette. Anzi, meglio ancora, se prima non ci si è lasciati interrogare. Perché anche domandare e domandare e domandare è un pratica invasiva. Ego-riferita. Presuppone che al centro ci sia ancora io che chiedo, io che esigo una risposta. Lasciarsi interrogare invece sposta l’attenzione. Mi chiede di farmi da parte. Di farmi silenzio. Di mettermi in ascolto. Di accogliere tutto, anche quello che non avevo idea potesse esserci. Durante QUI | Festival dell’Esserci, abbiamo provato proprio a fare questo: lasciarci interrogare.

“i ragazzi liberano tutti, come l’ultimo a nascondino” – dice Stefano Laffi, sociologo e ricercatore per Codici, Ricerca e Intervento – “Vogliono liberare loro stessi, certo, ma in qualche modo vogliono liberare anche noi” rifiutando le nostre esistenze iper-performanti, mettendo in dubbio i nostri standard senza senso. E’ disobbedienza civile, un dissenso gentile (ma non meno efficace): al nostro continuo correre, loro rispondono col fermarsi. Al nostro continuo parlareparlareparlare, loro rispondono col silenzio. Sfuggono al nostro progetto, alla nostra colonizzazione, al nostro controllo. E questo ci fa paura. Ci disorienta. Perché ci mette davanti a tutte le nostre crepe e a tutte le nostre fragilità. Capovolge il nostro mondo, lo fa a fettine, scardina le fondamenta su cui poggia. Ci rende estranei a noi stessi.

Ma dietro a quelle porte chiuse ci sono persone, e sono vive! Negarsi al mondo le rende più presenti che mai. “La loro assenza le impone ai pensieri, nella mente degli altri”, dice Matteo Zanon, psicoterapeuta del Progetto Sakidō. Il loro corpo secretato, ci ricorda quanto sia reale. Quanto ci manchi. Un corpo in trasformazione, come ogni corpo è. Che a volte puzza, che a volte si ammala, che è attraversato dal desiderio e che un giorno morirà. Eros e Thanatos – dice Raffaele Mantegazza (professore di Scienze Pedagogiche all’Università di Milano- Bicocca) – i due immensi temi della vita, di cui abbiamo smesso di parlare. Come abbiamo fatto con i corpi, ce li siamo dimenticati. Accidentalmente li abbiamo fatti scivolare nella cartella dello spam, tra le cose inaccettabili, nel cestino dei tabù. Abbiamo fatto in modo che smettessero di interrogarci. Ma dice ancora Mantegazza: “Se non parliamo di questo, onestamente, di cosa parliamo?”

E allora cosa succede? Succede che gli adolescenti spariscono. “Forse i miei genitori non mi vedono né quando sono in casa né quando sono fuori. Non sanno chi sono…” dice un adolescente di Sakidō. E allora la camera, la rete, i videogiochi, i manga, i libri diventano il rifugio. Il luogo ancora intatto in cui il mondo adulto – la società – non si prende quasi mai la briga di avventurarsi. E quindi il luogo perfetto per sperimentare se stessi, la propria identità in lavorazione. Sono il regno delle esperienze possibili, spiega Francesco Bocci (psicoterapeuta e fondatore del metodo Video Game Therapy®). Il luogo dove sperimentare il piacere, senza dover per forza produrre qualcosa. E questa è una cosa potente, dice ancora Bocci, che attiva aree antiche del nostro cervello. E quindi, esattamente quello che temevamo fosse il problema – il videogioco, il “passare il tempo” – diventa invece un alleato. A volte addirittura una soluzione.

Tommaso Zanella, psicoterapeuta e vicepresidente de Il Minotauro, lo dice bene: “internet è un ambiente, non più solo uno strumento. E più l’adulto si tira fuori dalla relazione complessa, più i ragazzi – quella relazione e quel conforto – vanno a cercarli su internet”. E quindi cosa possiamo fare adesso? La risposta non è una risposta, ovviamente. Ma è lasciarsi interrogare. “Cosa sta accadendo?” “Cosa ci stanno dicendo gli adolescenti?” “Cosa posso fare io?”. Esserci. Nei fatti, col corpo, essere presenti, anche semplicemente dicendo “non lo so, però dimmi tu come ti senti a riguardo”, suggerisce Zanella. Preoccuparci delle fragilità, delle emozioni e dei comportamenti negati degli adulti. Concederci del tempo di vuoto, di silenzio. Tornare a nobilitare l’Ozio, come suggeriscono i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Concederci il tempo della vita (e non solo quello del lavoro), quello per lasciare che le cose scendano in profondità, il tempo della cura e della partecipazione civile. Gli adolescenti sono preoccupati per il loro futuro. Gli adulti anche. Lo dice chiaramente Simona Rotondi, della Fondazione Con i bambini, rileggendo i dati emersi da “Gli adolescenti italiani nello sguardo degli adulti”, la ricerca condotta in collaborazione con Demopolis. Ma ormai è chiaro, l’unico modo per occuparsene è stare nel presente, esserci qui e ora, come possiamo, meglio che possiamo.

A cura di Elisa Begni, operatrice del Progetto Sakidō

Sakido è un progetto di cura, prevenzione e sensibilizzazione al fenomeno del ritiro sociale in adolescenza sostenuto dalla Fondazione Con i bambini nell’ambito del fondo per la povertà educativa minorile. Per informazioni: www.sakido.it. 

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