Sfumature di Sakidō

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Ragazze e ragazzi del progetto incontrano l’Arteterapia

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Proviamo ad immaginare una stanza. È il mese di dicembre e non c’è molta luce fuori, così dobbiamo accendere le luci interne artificiali. Musica classica in sottofondo, un tavolo cosparso di matite, pennarelli, pastelli, gessi di tutti i colori e sfumature possibili. Una pila di riviste ed una “scatola delle immagini”. Cosa sta per accadere?

Il progetto Sakidō sta per proporre un percorso di Arteterapia a quattro adolescenti con differenti storie di progressivo allontanamento dai contesti sociali e con difficoltà relazionali. Si tratta di una sperimentazione, di una scommessa, esiste infatti molta poca letteratura rispetto all’utilizzo del linguaggio artistico a sostegno di giovani che stanno vivendo questa problematica, così per noi questo primo giorno si carica ancor più di significato ed emozione.

Nell’arte che diventa terapia, il prodotto artistico rimane subordinato al processo che lo genera e la tecnica terapeutica non cerca tanto di interpretare, ma diventa essa stessa un percorso significativo in cui vengono attivate capacità, risorse e processi che possono favorire lo sviluppo del senso d’identità ed una maggior consapevolezza rispetto a quanto si sta vivendo o provando.  L’obiettivo non è “fare bene” o produrre qualcosa di esteticamente “bello”, ma è comunicare i nostri pensieri ed emozioni così come viene istintivamente fare.

Per questa ragione abbiamo creduto in questa scommessa, pensando di proporre ad un piccolo gruppo di ragazze e ragazzi un momento per loro, in cui potessero esprimere emozioni attraverso un canale differente dalla parola.

Durante l’ora dedicata alla produzione artistica, la parola è sospesa. Tutto vale, anche il foglio bianco, ma i ragazzi ci sono, sono lì, presenti. Al termine di ogni incontro, sfuma la musica, il tempo è concluso, si appende il proprio disegno, ritorna la parola, rimane sempre sospeso il giudizio.

Ad accompagnare ragazze e ragazzi in questo viaggio ci sarà Wanda, arteterapeuta in formazione e educatrice di grande esperienza, esterna all’equipe di progetto.

“Non ho voluto sapere molto dei miei compagni di viaggio, solo il minimo indispensabile per poter essere di sostegno nel caso in cui subentrassero blocchi o difficoltà. Il primo giorno non è stato per nulla facile: si trattava di un gruppo composto da due ragazze e due ragazzi, quattro adolescenti con sulle spalle vissuti molto intensi ed un lungo periodo di isolamento”.

Nulla era scontato in quel primo giorno; non era scontato che i ragazzi si presentassero, che fossero capaci di stare insieme intorno ad un tavolo, che riuscissero a mettersi in gioco davanti agli altri o ad alzarsi per prendere il materiale.

È iniziato così, in quel giorno di dicembre, il laboratorio di Arteterapia del progetto Sakidō .

Durante il primo incontro si prova a lavorare sulla presentazione, ma spesso ci si trova a confronto con una riluttanza a produrre un’immagine, poiché la richiesta di mettere stati d’animo su un foglio può essere percepita come troppo “forte” e rischiosa, ancor più all’interno di un gruppo come quello che ci trovavamo davanti: ragazze e ragazzi che avevano consapevolmente scelto di allontanarsi dai contesti sociali e con un vissuto spesso di inadeguatezza rispetto a loro stessi e alla propria immagine.

Si è così scelto di chiedere loro di mettere sul foglio qualcosa che li rappresentasse, lavorando così sulla metafora e non obbligandoli a parlare direttamente di loro stessi.

Il materiale che si mette a disposizione durante i primi incontri è costituito da set di matite, pennarelli, pastelli e gessi, ossia quel che si definisce “materiale secco”, più conosciuto e che rende più facile l’approccio con il foglio bianco della prima volta.

Accanto a questi materiali tradizionali, abbiamo pensato fosse importante offrire ai ragazzi materiali specifici come riviste, fumetti e ritagli che più si avvicinassero al mondo adolescenziale, dando loro la possibilità di rappresentarsi attraverso l’identificazione con i personaggi protagonisti, senza il rischio di rivelarsi o scoprirsi troppo. Questi ritagli vengono inseriti nella “scatola delle immagini”, un contenitore dentro cui l’arteterapeuta pone immagini che crede possano rappresentare un qualcosa di significativo per i componenti del gruppo, una sorta di “salvagente” a cui aggrapparsi nel momento in cui si ha difficoltà a mettere traccia di sé sul foglio bianco.

Durante il primo incontro i ragazzi non si sono mai alzati dal posto scelto, nemmeno per prendere il materiale; movimenti minimi, giusto quelli indispensabili, un grande silenzio e nessuna interazione tra loro. Solo alla fine dell’ora, una volta spenta la musica, hanno lievemente girato la sedia per alzarsi ad appendere il proprio foglio.

Sì, il patto è questo: al termine di ogni appuntamento, ognuno appende il proprio foglio e dà un titolo all’opera. Possibile anche la licenza “senza titolo”, come i grandi artisti.

Le prime immagini dei ragazzi sono state abbastanza lineari e tracciate in modo tradizionale, più distante dal coinvolgimento emotivo, seppur con qualche provocazione: una maschera bianca, un demone, un foglio bianco ritagliato in tanti quadratini. Qualcuno ha deciso di porsi in maniera decisa e forte, un po’ provocatoria forse, dando subito un’idea di ciò che la poteva turbare. Qualcuno ha avuto invece un iniziale atteggiamento oppositivo, non mettendosi in gioco e rifiutando la ritmicità scandita all’interno del setting, ma nonostante la visibile difficoltà e i momenti di blocco, nessuno è ricorso al salvagente della “scatola delle immagini”.

Un inizio non semplice, come ci immaginavamo potesse accadere in un gruppo così speciale, ma si è trattato di una sfida che abbiamo voluto intraprendere fino in fondo.

L’introduzione graduale di materiali e tecniche più prossime alle emozioni e al corpo, come tempera, acquarelli, colori a dita e inchiostri, è avvenuta nel tempo. Se i materiali “secchi” garantiscono sicurezza ed un maggior controllo sul lavoro, è attraverso i materiali morbidi e la loro mescolanza che si può davvero mettersi in gioco, osare, trasformare. Quando entra in campo l’acqua, la possibilità di controllo diminuisce: le mani si sporcano, come anche il tavolo. Gli inchiostri colano e sono difficili da gestire.  Se da un lato è vero che una tecnica morbida può “spogliare troppo”, essa garantisce una possibilità ludica ed espressiva incredibile: permettendoci di essere caotici e confusi, ci apriamo all’opportunità di creare un nuovo e diverso ordine.

Questo è esattamente ciò che è accaduto durante il nostro laboratorio: la sperimentazione dei diversi materiali e delle differenti tecniche, ha aiutato i ragazzi ad aprirsi, anche a livello relazionale.

“Tutto è diventato più dinamico: l’immobilità iniziale si è trasformata in un naturale e spontaneo movimento verso i materiali scelti. Potevo chieder loro di sistemare e lavare i pennelli, pulire i tavoli, cose scontate per un gruppo di lavoro, ma non per loro, quando iniziammo”.

Conclusa la sperimentazione di tutti i materiali, abbiamo assistito ad un vero e proprio sblocco, visibile e percepibile anche nella dinamica del setting: i ragazzi si alzavano, sceglievano i materiali da usare, non si accorgevano del trascorrere del tempo, producevano anche 6 disegni ad incontro. Osare, sperimentare, lasciarsi andare… Tutto questo, invece di mandare in crisi, ad un certo punto è diventato liberatorio. Da queste sperimentazioni sono usciti lavori molto particolari e scambi verbali  interessanti, in cui ciascun membro del gruppo poteva portare, sempre con grande delicatezza, il proprio punto di vista sul proprio disegno e su quelli altrui, lavorando su ciò che ognuno aveva messo di sé sul foglio e su quanto, invece, ci vedevano gli altri componenti del gruppo.

I ragazzi hanno avuto la possibilità di creare, di emozionarsi, di riflettere e talvolta sorridere, sperimentando nuove modalità di stare in relazione, permettendosi di creare un’apertura tra il loro mondo e quello degli altri. Hanno lavorato seduti ad uno stesso grande tavolo, in qualche modo diventando compagni e complici in una stessa esperienza. Crediamo che questo aspetto sia stato molto importante per giovani con difficoltà relazionali e di progressivo allontanamento dai contesti sociali, in quanto ha permesso loro di sperimentare nuove dinamiche e abilità sociali senza sentirsi esposti, grazie al linguaggio metaforico dell’arte.

Si è trattato di un viaggio durato 13 incontri, con cadenza ogni 15 giorni, che ha visto arrivare al termine solo due dei quattro giovani inizialmente coinvolti.

A conclusione del percorso, arriva il fatidico momento della “cartelletta”, uno spazio “più intimo” importantissimo in cui l’arteterapeuta ed il giovane, con l’aiuto del diario di bordo, mettono in ordine cronologico tutti i lavori, dal primo al più recente, con titolo e data di produzione. I disegni vengono messi in fila, si osserva il punto da cui si è partiti, come è cambiato l’utilizzo dei materiali, la scelta dei colori, la voglia di sperimentarsi. Possiamo definirla come un’auto-rilettura guidata, in cui si accompagna con discrezione il ragazzo dentro alle sue opere, rendendolo attore dei processi che l’hanno portato ad imprimere quelle tracce sui fogli.

Nel rimando della cartelletta individuale, le due ragazze che sono arrivate al termine del laboratorio hanno riconosciuto che è stato fatto un percorso, un cambiamento visibile sui fogli, ma soprattutto nel “progetto di vita” al di fuori della stanza dell’arteterapia. I disegni, e l’evoluzione che in essi si può osservare in maniera significativa, sono metafora di quel che è accaduto nel percorso individuale delle ragazze.

L’ultima produzione di questa nostra piccola grande sperimentazione, è consistita in un lavoro collettivo: la creazione di un mandala gigante.

Si è trattato di una scommessa nella scommessa, poiché il lavoro corale presuppone l’intreccio, la mescolanza di espressioni, la vicinanza; un disegno collettivo obbliga a toccarsi, a cambiare lo spazio in cui si lavora, a condividere il materiale con gli altri. Ciò che diventa importante è rispettare il confine e lo spazio altrui, senza invasione, ma senza nemmeno escludere la possibilità dell’incontro e dello scambio. Quest’ultima ci sembra una bella metafora della possibilità che le ragazze si sono concesse, traslabile anche in altri ambiti della loro esperienza e quasi incredibile considerata la difficoltà relazionale iniziale da cui arrivavano.

L‘attivazione di un laboratorio di Arteterapia all’interno del progetto Sakidō, ha rappresentato uno strumento che, integrato con le altre parti di intervento, ha avuto una ricaduta positiva sul percorso dei giovani. Il lavoro di equipe rimane imprescindibile, in quanto i ragazzi consegnano frammenti del loro vissuto e delle loro emozioni a soggetti differenti a seconda del ruolo che ricoprono. Riunire tutti questi elementi, ci ha permesso di avere una visione profonda e più completa di ciò che sta accadendo nel loro percorso di vita.

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