UNA VIA D’USCITA C’È

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Nell’ambito del progetto RESTART, il partner progettuale Dedalus Cooperativa Sociale – in particolare a Mugnano, in un bene confiscato alla criminalità organizzata e destinata a Centro Antiviolenza – ha attivato uno spazio di ascolto e di valutazione del rischio che al momento ha in carico 10 madri vittime di violenza, 7 italiane e 3 provenienti da altri paesi (Marocco, Ucraina e Nigeria) per le quali è attivo, tra l’altro, un servizio di mediazione linguistico culturale.

Le 10 madri abitano tra Napoli e i comuni a nord del capoluogo partenopeo e sono tutte impegnate in colloqui di supporto individuale e sostegno alla genitorialità e nella ricostruzione della relazione madre/figli. Le 10 donne seguite nell’ambito del progetto RESTART hanno subito diverse forme di violenza: fisica, psicologica economica. La violenza, infatti, ha molteplici aspetti ed il principale strumento di prevenzione è il suo riconoscimento.

Affronta questa specifica problematica la dottoressa Tania Castellaccio, responsabile dell’area accoglienza donne della cooperativa sociale Dedalus.

La violenza maschile sulle donne è un fenomeno strutturale: attiene, infatti, al fondamento patriarcale della società e rappresenta uno dei meccanismi cruciali attraverso i quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini. È un fenomeno, quindi, che attraversa ogni classe sociale, ogni contesto culturale, che non ha specifiche geografie di appartenenza: secondo l’UNIFEM (Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne) nel mondo una donna su tre è stata violentata, picchiata oppure abusata almeno una volta nella sua vita. Per quanto riguarda l’Italia, i dati rilevati dall’ ISTAT non si discostano da quelli mondiali, una donna su tre – dunque sette milioni di donne nel nostro paese – ha subito una forma di violenza maschile almeno una volta nella vita.

Nonostante ciò, siamo tutte e tutti immersi in una cultura che, se non normalizza del tutto la prevaricazione di un uomo su una donna nel contesto intra-familiare, tende comunque a minimizzare i danni che il maltrattamento produce sulle donne che la subiscono e sui bambini, se la donna è anche madre.  

La violenza domestica, dunque, può incidere sulla relazione con i figli. Per quanto si possa sforzare, infatti, di tenere nascosti i suoi sentimenti e di fare tutto quello che può per proteggere i propri figli, questi, proprio perché profondamente legati alla madre, percepiranno la sua paura, il suo sconforto e la sua tristezza.

Molto spesso le denigrazioni, le umiliazioni, e le violenze inflitte dal maltrattante investono direttamente il ruolo di madre, attraverso false accuse di non essere una buona madre, strumentalizzando le necessità di cura dei figli il maltrattante spesso impone alla donna di lasciare il lavoro, di rimanere isolata a casa, inoltre il ricatto per trattenere la donna all’interno della relazione maltrattante spesso riguarda proprio i figli.

I maltrattanti fanno leva sull’imperativo – ancora radicato e veicolato da stereotipi e aspettative sociali legate ai ruoli di genere – di tenere unita la famiglia ad ogni costo, sulla paura delle donne di non riuscire a mantenere e crescere i figli da sole, senza una casa e senza un lavoro, in definitiva sulla loro posizione di svantaggio sociale ed economico che la violenza inflitta nella relazione ha sicuramente aggravato se non determinato in toto. Questa posizione di svantaggio connota fortemente la condizione delle donne immigrate, che oggi, costituiscono la fascia più esposta al rischio di marginalità sociale e rappresentano il cuore della discriminazione di genere, in quanto su di loro pesano simultaneamente anche altre forme di discriminazione, le cui intersezioni determinano forme estreme di vittimizzazione.

Le donne migranti vittime di violenza e/o di tratta e sfruttamento che si rivolgono ai servizi di contrasto alla violenza hanno un’esperienza migratoria caratterizzata da violenze fisiche, sessuali, economiche e psicologiche. Spesso la condizione di violenza sussiste anche nel Paese d’origine, all’interno del proprio contesto familiare, spesso scappano dal patriarcato per ritrovarsi conculcate dentro forme di oppressione patriarcale diverse, ma più complesse e più lesive.

La violenza sulle donne non è un “fatto privato”, ma, in quanto violazione dei diritti umani, costituisce un fatto politico, ed è fondamentale e prioritario agire sul problema del riconoscimento e dell’emersione della violenza.  Nelle relazioni intime violente e nella violenza domestica, la violenza fisica è più facile da riconoscere, mentre quella psicologica più difficilmente viene identificata come tale, ma è quella che sottende tutte le altre forme di violenza perché è il modo attraverso cui l’aggressore cerca di tenere la donna sotto controllo e isolarla, insultandola, convincendola di non valere nulla o, addirittura, di essere pazza.

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