Progetto RE-START Farsi giardinieri di relazioni per crescere le comunità educanti, nelle differenze

di

(a cura di Elena Spello – educatrice professionale Cooperativa Sociale NATURart)

 

La comunità educante al centro delle nostre riflessioni: perché il lavoro di sviluppo di comunità è più del lavoro di rete?  Cosa vuol dire potenziare le possibilità educative di una comunità, fatta per sua natura di differenze e di antitesi? E qual è la giusta postura metodologica per favorirla?

 

Uno degli assunti ormai indiscutibili del fare-bene-prevenzione al disagio minorile è la necessità del lavoro di rete fra le agenzie educative (formali e informali) che accolgono bambini e ragazzi di uno stesso territorio: scuole, associazioni sportive, parrocchie, cooperative sociali, comitati genitori, enti culturali. Tutte realtà differenti dalle quali spesso transitano i medesimi minori, le loro famiglie e i loro bagagli di fatiche e contraddizioni.

 

Dal lavoro di rete al lavoro di comunità

Il rischio è che il lavoro di rete (e sulla rete) rimanga solo un’enunciazione di intenti, uno slogan, confinato magari ad una buona fase progettuale, oppure che venga considerato quale elemento di visibilità e accreditamento del lavoro di un’equipe operativa, ovvero un’azione capace di muovere consensi e sciogliere reticenze.

La rete, insomma, vista come “ancella” di iniziative nuove o salvifiche rispetto ad un problema, funzionali al sostegno di altro, affinché funzioni al meglio.

Cosa diversa, però, è considerare la rete non più come strumento, ma come target vero e proprio dell’intervento, tanto da non vederla più come somma di soggetti da coordinare e armonizzare, ma valutandola semmai come un’entità, come un soggetto portatore di sue specifiche peculiarità: da scoprire, valorizzare e alle quali dare voce.

Volgere questo sguardo sulle relazioni presenti in un territorio vuol dire riconoscere una comunità in quanto organismo al quale avvicinarsi con rispetto e curiosità per valorizzarlo e promuoverlo, proprio come si fa quando ci si avvicina una persona, la quale non è fatta solo dalle relazioni esistenti fra i suoi organi interni, ma che è una persona fatta anche di questi, grazie a questi, ma è molto, molto di più.

Sviluppare una comunità dunque, non perché “serva” a far funzionare altro, ma, semmai, in quanto humus dove ciascuno di noi è immerso e quindi la miglior garanzia di outcomes di impatto sociale duraturi e capaci di moltiplicarsi ben oltre la fine di qualsiasi intervento/progettazione, che per sua natura ha una fine.

 

Sviluppare una comunità educante

Una comunità, in sé, educa anche se non lo vuole.

Un ragazzo che sfreccia in bicicletta attraverso le strade del suo quartiere assorbe molto più da quel che vede e da quel che vive attraverso gli impercettibili segnali del suo territorio, che non dalle molte parole spese con e per lui: la piazza è ancora piena di spacciatori e forse oggi è meglio evitarla? L’oratorio è di nuovo chiuso? Il teatro di quartiere è fermo da tempo? Hanno imbiancato il muro pieno di bestemmie? C’è un posto per quelli della mia età? Qualcuno mi chiede perché sono in giro e non a casa mia a fare i compiti? Il cestino, rotto dal mio amico, è stato visto da qualcuno?

Il punto attorno al quale lanciare la riflessione e il lavoro di cambiamento è semmai: “Una comunità educa come? Educa a cosa?”

Il progetto RE-START ha fatto la scelta di guardare alla comunità di un territorio come sempre educante: il salto proposto inizialmente a Bustecche, San Fermo e Malnate è quello di esplorare – proprio con chi vive lì – le proprie modalità di fare comunità, “guardandosi allo specchio” per darsi un volto e sapere con maggior intenzionalità cosa si trasmette e cosa di vorrebbe trasmettere ai minori, di più e meglio.

L’attitudine al cambiamento, la predisposizione all’accoglienza, la spinta alla collaborazione, l’accettazione delle differenze, le preoccupazioni più rilevanti sono sempre frutto di un’alchimia diversa per ogni territorio e strettamente dipendenti da fattori che, miscelandosi, generano caratteri differenti: la conformazione geografica, la storia recente e passata, l’urbanistica del quartiere o della città, la vicinanza al lago o alle montagne, la presenza di criminalità o di disagio sociale marcato, l’attività di persone significative.

Tutti questi elementi “fanno” il carattere di una comunità e ne definiscono in maniera irripetibile quel genius loci che l’operatore deve inizialmente osservare, condurre ad esplorare, imparare a narrare, per poi solo successivamente potenziarne le possibilità di sviluppo.

 

Cosa vuol dire sviluppare una comunità educante che sappia riconoscere e valorizzare le differenze?

Innanzitutto, per promuovere la crescita di una comunità educante, serve riconoscerne la sua esistenza a priori e farla emergere, darle spazio, avrebbe detto Calvino.

Nessun intervento socio-psico-educativo farà mai nascere una comunità educante e questa è una deriva narcisistica, tanto frequente quanto insidiosa, dell’operatore: l’atteggiamento di colui che si accinge a lavorare per l’empowerment di una comunità deve essere quello di un giardiniere saggio, che sa dissodare, concimare, innaffiare, anche potare al bisogno, ma sapendo che qualcosa c’era e ci sarà anche dopo di lui, anzi, nonostante lui.

Sviluppare una comunità educante vuol dire rendere più esplicita l’identità di ciascuna agenzia educativa e il suo oggetto intenzionale, imparando a riconoscere e a mostrare il proprio ruolo: quel modo fare che non potrebbe appartenere a nessun altro.

E questo non basta: perché si faccia comunità serve proporre uno sfondo integratore che permetta a ciascuno di potersi collocare di fianco ad altri enti, come pezzi di un puzzle che solo insieme e non sovrapposti possono creare un’immagine chiara. Questo spesso è un processo doloroso, fatto anche di strappi, squalifiche reciproche, mediazioni e domande sempre aperte: è il “rumore” che fa un gruppo di persone quando deve perdere una parte di sé per guadagnare qualcosa che ancora non conosce, ma che va oltre la propria identità.

Lo sfondo integratore, capace di raccogliere tutti, e che pensiamo di proporre e sul quale implementare le risorse delle comunità educanti di Bustecche, San Fermo e Malnate, è certamente la protezione dei più piccoli, la salvaguardia della loro crescita armonica, la promozione del loro benessere e di opportunità per il futuro, lo sviluppo di una cultura della legalità e del rispetto delle differenze, la cura e il sostegno alle famiglie più fragili e a quelle in procinto di diventarlo, ma anche alle famiglie dove il dramma della povertà educativa non è ancora arrivato, ma tanta è la fatica di crescere figli in un mondo così invadente e precoce con le giovani generazioni.

Attorno a questi valori è difficile non convergere, pur avendo ideali e visioni distanti sul come perseguirli.

Il dubbio metodologico è subito dietro l’angolo: come fare a promuovere la crescita di una comunità concretamente e operativamente? Come tenere insieme anime differenti, sensibilità opposte, priorità culturali e politiche spesso lontane fra di loro? Come trattare le fratture fra gruppi e istituzioni o il poco riconoscimento dell’identità dell’altro?

È solo con una postura di stupore ed umiltà che si entra a lavorare nelle fenditure delle comunità educanti, dove tante sono le ferite e le frustrazioni, che tuttavia vengono rese disponibili allo sguardo degli altri solo dopo molto tempo. Una comunità è come una persona, per mostrare i suoi punti deboli deve fidarsi di te, se vuole… Solo allora sarà possibile elaborare le spaccature fra enti e persone o gli imbarazzi generati da errori di valutazione o i malumori fra referenti poco inclini alla diplomazia.

Ci sono molti modi per far passare questo “tempo” capace di cucire la fiducia (o di crearla proprio) e il migliore, a mio avviso, è fare qualcosa di bello e importante, insieme. I punti di contatto fra enti che intendono l’educazione anche in modo differente si trovano solo lavorando insieme gomito a gomito ed essendo parte di qualcosa che va aldilà del proprio consueto operato: abbellire insieme uno spazio trasandato, raccogliere fondi per una iniziativa che ricada nella comunità, riqualificare un’area abbandonata, organizzare un evento di festa per i cittadini, sensibilizzare il territorio su un certo tema. Questi sono solo esempi di attività capaci di tenere insieme scuole e progetti di educativa di strada, società sportive ed esercizi commerciali, associazioni culturali e gruppi genitori.

Serve un pretesto, una buona scusa per fare vedere di cosa si è capaci.

Compito dell’operatore è accompagnare quel processo affinché vada a buon fine, perché rimanga patrimonio comune a tutti, valorizzando le risorse emerse ed elaborando in modo costruttivo le criticità incontrate.

Così in una comunità educante che funzioni la scuola può, ad esempio, appoggiarsi all’associazione genitori per il recupero scolastico pomeridiano, costruendo insieme un doposcuola. La parrocchia può dare degli spazi agli educatori di strada per incontrare i ragazzi più diffidenti e lontani dalle proposte della Chiesa. L’associazione sportiva può organizzare laboratori di avviamento nella scuola elementare del quartiere. L’associazione culturale può entrare nella scuola a parlare di argomenti cari al territorio. Il servizio di formazione all’autonomia per disabili lievi può proporre un corso di teatro comune per i propri utenti e i gli adolescenti dell’oratorio o dell’educativa di strada.

 

Il lavoro di sviluppo di una comunità, però, non è sfornare iniziative, pur belle e ben riuscite per le persone che abitano un territorio. Questi sono certamente risultati concreti auspicabili e per nulla trascurabili, ma in un’ottica di empowerment sono solo strumenti per raggiungere altro, ovvero un tessuto di interconnessioni virtuose capaci di moltiplicarsi anche a distanza di tempo ed in autonomia per intercettare e agire sul disagio fin dal suo primo insorgere ed abbracciare così, “a più mani”, i ragazzi più fragili e  le famiglie più a rischio, lavorando insieme senza antagonismi e imparando a chiedere aiuto fra adulti delle agenzie educative che insistono su uno stesso territorio per raggiungere, di più e meglio, anche le famiglie e i ragazzi apparentemente più refrattari a farsi supportare.

 

 

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