La piramide di cartongesso
di coopagora
Ho sempre guardato con interesse ai ragazzi egiziani. Mi colpiva la loro provenienza, quel Paese misterioso e affascinante dove da piccola sognavo di andare a lavorare come archeologa. Scoprire i loro rituali, quelle scritte alle pareti e quella storia millenaria che era arrivata fino a noi. Tra i tanti ragazzi seguiti dal nostro centro, ero rimasta molto legata a Ahmed, un giovane alto, un viso da bambino in un corpo da adulto cresciuto troppo in fretta, solo al mondo in terra straniera alla ricerca di un miraggio, di una fortuna dietro l’angolo per poter tornare sulle rive del Nilo a dire “Ce l’ho fatta!”. Un sogno fatto di scarpe Nike Air e cappellini degli Yankees, di uno smartphone ultimo modello e un taglio di capelli alla moda. A lui ero molto simpatica, anche se di me non accettava un sacco di aspetti. Cercava, per quanto possibile, di seguire i miei consigli ma era realmente preoccupato per il mio futuro. Anzi, per il mio futuro ultraterreno. Si, avete capito bene, il ragazzo egiziano temeva per il mio trapasso in quanto, a suo parere alcune mie caratteristiche mi avrebbero portato dritta dritta all’inferno. Per lui le donne erano solo la mamma, la sorella, la futura moglie e poi tutte le… poco di buono. Io per lui non ero nessuna delle tante e, per questo motivo era difficile inquadrarmi in una qualche categoria. Eppure sentivo di essere importante per lui, nelle attività e nelle uscite del centro, anche se la relazione era sempre molto difficile. Io, una persona dell’età dei suoi genitori, non sposata, senza figli, non aderente ad alcuna religione eppure con una conoscenza di qualche parola in arabo e con la capacità di realizzare un piatto di koshari meglio di un ristorante de Il Cairo. Ma per Ahmed, c’era un aspetto che segnava irreparabilmente lo spalancarsi per me dei cancelli del diavolo: i miei tatuaggi. Un giorno, mentre facevamo i compiti, affrontando queste tematiche, Ahmed è diventato tutto rosso, con gli occhi lucidi, come se volesse buttare indietro le lacrime che non può permettersi di piangere. “Io sono preoccupato per te… ma non capisci…”, mi aveva detto con voce rotta dall’emozione, “…non ti salverai mai con tutti questi peccati, andrai all’inferno e io sarò triste…”, aveva seguitato con i pugni stretti sulle pagine bianche del quaderno sul quale tentava di scrivere il proprio nome sulla pagina bianca. Ho tentato di spiegare che la pelle anche con il tatuaggio suda lo stesso e gli eventuali spiriti maligni dentro il corpo possono uscire comunque. Ma nulla. Le mie spiegazioni non avevano alcun effetto è troppo difficile lasciare le proprie convinzioni e tentare di avventurarsi in sentieri nuovi e differenti. Eppure, poco alla volta, con il nostro lavoro educativo, cerchiamo di aprire uno spiraglio ad una diversa possibilità. Non certo fare cambiare idea, ma provare ad osservare le cose da un punto di vista differente. A volte riusciamo. Con Ahmed sono arrivata ad avere un bel dialogo e, sebbene arroccato nelle sue posizioni ideali, che di certo non discuto, ha trovato un piccolo spazio di interrogazione. E a me fa piacere. La storia del suo Paese millenaria è lontana, granitica, indiscutibile sicuramente. Eterna come le piramidi ma, come dico io, lui a volte mi ricorda un faraone, sì ma di una piramide di cartongesso.
Anna Scabazzi, Roberto Polleri
(foto da CEL Torretta)
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