UN PALCOSCENICO PER LE MAMME DEL MONDO – Il teatro sociale di Alessandra Cutolo

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prima infanzia teaotro laboratorio

Ci sono giorni in cui, mentre i bambini sono in aula, il cortile della Di Donato viene attraversato da una piccola processione di donne che si ritrova per qualche ora nel teatro della scuola. Qui, negli anni, sotto la direzione paziente e appassionata di Alessandra Cutolo, e insieme a Silvia, Simonetta, Livia e Denise, mamme e attrici professioniste, le donne della comunità nigeriana prima, e poi di quella bengalese e di quella etiope si sono incontrate, raccontate e hanno messo in scena il loro vissuto e le loro storie.

 

Alessandra, ci racconti come è iniziata l’esperienza di teatro sociale con le mamme?

Tutto è iniziato perché mio figlio stava all’asilo nido con la figlia di Comfort, una mamma nigeriana. Lei e la sua amica Patience mi hanno raccontato il loro viaggio. Io ne avevo sentito parlare solo nei telegiornali, ma non avevo mai incontrato personalmente qualcuno che mi dicesse che la sabbia scotta anche attraverso la gomma delle scarpe da ginnastica o che in certi casi, se si vuole scongiurare la disidratazione, è necessario bere la propria pipì; piccole cose che mi hanno colpito e che sono poi entrate nello spettacolo. 

 

Avevi già esperienza di lavoro con non attori?

Sì, a Napoli avevo già fatto teatro con i non attori per diversi anni, prima con i detenuti e poi con le donne di Forcella. Esperienze parallele a questa, per certi versi molto differenti e per altri versi simili. Per esempio, problemi simili sono sorti nella formazione delle compagnie che sono poi nate da questi laboratori, ma simili sono stati anche i risultati. Alcuni detenuti, all’epoca, hanno affermato che il teatro aveva salvato loro la vita, nel senso che altrimenti era probabile che finissero  destinati al ciclo senza soluzione di entrata e uscita dal carcere, e invece sono diventati attori. Sasà Striano ha scritto due romanzi sulla sua vita, ha fatto “Cesare non deve morire” dei Taviani e svariati altri film e ricevuto tanti premi. E non è il solo: Carmine Paternò ha recitato sia teatro che in alcune serie tv, e così le donne di Forcella. Con alcune mamme nigeriane stiamo tentando oggi di fare questo salto nel professionale, anche se non è facile, ma qualche occasione c’è già stata. 

teatro cutolo mamme migranti

Qual è stata la fase più semplice e quale quella più complicata del percorso?

All’inizio è stato semplice e naturale e molto bello ritrovarci fra mamme, africane e italiane insieme, mentre i figli andavano nella stessa scuola, dunque non operatrici da una parte e utenti di un progetto dall’altra, ma tutte pari nel giocare a fare teatro, tutte nella stessa condizione. Poi sono subentrati una serie di problemi legati al trauma delle vite vissute che riaffioravano nelle prove e alla difficoltà di riconoscerlo, affrontarlo e trattarlo in quanto trauma. Io stessa inizialmente non ho tenuto abbastanza in conto alcune problematiche. Quando un bambino un giorno si è ferito alla testa, la madre si è lanciata a terra per esprimere il suo dolore in un lungo rituale che per tanto tempo ha bloccato i soccorsi, impedendo all’ambulanza di avvicinarsi. Non capivo perché.  Forse in maniera ideologica il mio sentirmi uguale non identificava all’inizio alcune differenze culturali, anche rispetto alla relazione con i soldi, per fare un altro esempio. Ma abbiamo imparato le une dalle altre.

 

Come descriveresti il tuo metodo di lavoro? 

Il mio metodo, anche quando prende le mosse da un testo, è quello di mettere in scena la situazione. Non scrivere mai e non imparare mai niente a memoria, per evitare l’effetto cantato che il non attore tende involontariamente a produrre. È un metodo che spinge a lavorare sull’identificazione, nel senso che spinge a domandarsi: “Cosa farei io in quella situazione?”, e quindi permette di eliminare facilmente ciò che non è veramente sentito e di portare invece in superficie ciò che è nel profondo. Così l’attore è sempre in qualche modo autore di ciò che dice, e a questo si aggiunge, inevitabilmente, anche una rappresentazione dei fantasmi del regista.

 

In questo modo è nato il primo spettacolo, Storie di sabbia e di mare, e la prima compagnia, Women Crossing.

Il primo gruppo, quello delle mamme italiane e nigeriane, raccontava la storia del viaggio di Patience, reso più fiabesco e intrecciato con la storia di Giulietta e Romeo. Lo spettacolo ci ha portato a Pistoia, al Teatro India, a Napoli, con grande soddisfazione, e grazie a Con I Bambini e alla collaborazione dell’I.C. Manin abbiamo potuto aprire un laboratorio di teatro permanente. Il secondo spettacolo che ho fatto con loro, Cassandra, è stato più complicato, perché era tratto da un testo di un drammaturgo tedesco che aveva partecipato e vinto un concorso (Fabula Mundi) sulla scrittura del confine. Era la storia di un naufragio ed era una finzione, mentre prima avevamo sempre lavorato a partire da elementi biografici, attenuando il trauma grazie alle continue ripetizioni imposte dal teatro. In questo modo lo spettacolo si alleggeriva dal punto di vista emotivo ma era una conquista voluta, un percorso anche terapeutico. Invece un testo dato, che non potevamo modificare più di tanto, per di più su un elemento come il naufragio, è risultato troppo drammatico da trattare per loro, specie perché non vissuto in prima persona. Non è stato facile capire per me da dove venisse questo limite, ma forse nell’autobiografia ci si costruisce una corazza, invece vivere un dramma altrui non è la stessa cosa. Grazie a questa esperienza alla scuola Di Donato, sono andata in Sudan, durante l’estate, per fare teatro con i professionisti del Teatro Nazionale e un gruppo di disabili, e lì per la prima volta ho fatto un’esperienza di teatro oltre la lingua, perché io non parlavo l’arabo e l’interprete non conosceva bene l’inglese, però parlavano le emozioni; tramite esse era tutto chiaro, ed è stato così bello che quando sono tornata a Roma ho cercato i sudanesi che stanno qui e con alcuni di loro abbiamo ripreso il testo di Tayeb Salih, La stagione della migrazione a Nord, da un’altra angolatura e ci stiamo ancora lavorando.

 

Intanto sono passati cinque anni da quel primo incontro con Comfort all’asilo nido e sono successe tante cose…

In questi anni l’esperienza del teatro ha inserito le mamme africane nelle dinamiche sociali del cortile della scuola, allargando le loro conoscenze. Ma è stato soprattutto quest’anno che ho potuto misurare la sua importanza, quando a Spin Time, il palazzo occupato dove vivono quasi tutte le mamme africane, si è verificata una situazione di grave crisi, perché gli occupanti residenti e l’ala più politica sociale culturale dell’occupazione sono entrati in forte conflitto tra loro. In quell’occasione, le attività fatte con i piccoli, grazie al contributo di Con I Bambini e alla Fondazione Italiana Charlemagne in rete, hanno permesso di sciogliere le tensioni ed evitare la faida tra il “sopra” e il “sotto”. Faida che in altri palazzi occupati di Roma è avvenuta, portando a risultati disastrosi, perché laddove gli italiani sono stati espulsi, e sono rimasti solo i migranti del Corno D’Africa, questi ultimi si sono ritrovati in grande difficoltà durante la pandemia, chiusi dentro senza possibilità di uscire e di comprare cibo e acqua, anche perché era venuta a mancare la mediazione degli italiani. Aver fatto attività con gli occupanti di Spin Time nel periodo in cui avevano dichiarato guerra, per timore dei contagi, a tutti gli italiani e i politicanti, ci ha permesso di dialogare con le famiglie e superare quel momento di tensione.

teatro di donato Alessandra Cutolo

Un altro risultato importante è stato il coinvolgimento delle mamme bengalesi, sempre grazie all’esperienza del teatro…

Le mamme bengalesi culturalmente erano lontanissime dal teatro, non sarebbero mai andate sul palcoscenico con la disinvoltura delle nigeriane e avevano problemi a mostrarsi in pubblico agli adulti, quindi l’idea giusta, e l’unica possibile, è stata quella di fare un’attività con i bambini. Così è nato lo spettacolo Bachau! Bachau!, da una storia che ci ha raccontato la mamma di Dayan, ancora una volta un bambino in classe con mio figlio, a riprova dell’importanza che l’amicizia tra i figli riveste come via di contatto privilegiato. Bachau! Bachau! era l’equivalente del nostro Al lupo! Al lupo!, che ho scoperto essere una storia antichissima, di matrice greca. È un racconto di pastorizia, che è migrato dall’Occidente in Oriente e nella migrazione ha visto la trasformazione degli animali da pecore a mucche, pur conservando il significato universale. 

 

L’ultimo gruppo, l’ultima scoperta, sono state le mamme etiopi…

Tutto è nato da due mamme che abitano al Quattro Stelle, un’occupazione sulla Prenestina. Durante la prima quarantena abbiamo portato delle scorte di cibo e le abbiamo conosciute, poi, grazie a loro due, altre mamme etiopi hanno iscritto i loro figli nella nostra scuola e si è creato il gruppo di teatro. Anziché nel teatro della Di Donato, però, a causa del Covid, con loro abbiamo lavorato sempre all’aperto, principalmente nel piccolo parco di via Statilia. Il laboratorio si è svolto attorno ad una bellissima fiaba sull’accoglienza, che abbiamo da poco messo in scena, e che narra di una madre e di una figlia che ospitano per una notte un topo, un serpente, una scimmia e un uomo. Per quanto il serpente le spaventi, lo fanno per puro senso dell’ospitalità. Tempo dopo, una carestia costringe la figlia ad emigrare in cerca di fortuna, il topo la incontra per strada, la riconosce e la accompagna in un buco segreto dove tiene delle collane di diamanti, che le dona in cambio dell’ospitalità ricevuta. Mentre va per venderle al mercato in cambio di denaro, la bambina incontra l’uomo, il quale, dopo aver chiesto di poter ammirare le belle collane, gliele ruba e la fa cadere in un burrone. La recuperano le scimmie, che la rimettono in piedi ma si scusano perché non hanno tesori da offrirle. Possono però farle incontrare il serpente, il quale gli dà una cosa preziosissima, e cioè la foglia dell’erba che guarisce il morso del serpente, e gli spiega il suo piano. Andranno ad un matrimonio lì vicino, dove lui morderà la sposa, allora lei la guarirà con la foglia e in cambio otterrà le ricchezze che le consentiranno di tornare a vivere per sempre con la mamma. E così avviene. Vedere le mamme etiopi raccontare questa storia di accoglienza ai bambini italiani crea un bel circolo virtuoso, e poi mi piace molto la figura del serpente, che nel veleno nasconde invece uno strumento di salvezza. Nella compagnia ora sono in quattro, quasi tutte mamme sole con figli, tutte molto più impegnate delle altre mamme africane che ho conosciuto, perché lavorano da sempre a servizio, e oltretutto vivono nell’occupazione più lontana e difficile. Con la loro incredibile gentilezza, mi hanno iniziato alla letteratura etiope, a cui mi sono appassionata. Tanto che mi piacerebbe con loro, quando si saranno un po’ formate sul piano teatrale, fare uno spettacolo su un testo di Maaza Mengiste, che parla dell’occupazione italiana in Etiopia: una storia tutta ancora da raccontare.

 

Marianna Cappi

Associazione Genitori Scuola Di Donato

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