Laboratori teatrali a Manfredonia: “Il cerchio o come nasce una Comunità”

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Contributo dell’associazione “Bottega degli Apocrifi” *-La prima cosa che accade durante i laboratori – con i bambini, gli adolescenti o gli adulti – è il cerchio. Che il laboratorio si tenga sul palco del teatro, in una sala, in un’aula scolastica, in una palestra, sappiamo che è cominciato quando si crea un cerchio che ci permetta di guardarci tutti contemporaneamente, anche se siamo tanti.

La seconda cosa che accade è che ognuno dice il suo nome, con tutta l’energia che ha e comunque voglia. Non solo il primo giorno per conoscerci; lo facciamo ogni volta che c’incontriamo e vale tutto, dalla scansione in sillabe al rap, dal canto lirico al pop al sussurro; l’importante è che in quel nome ci sia tutta l’energia possibile e che non si traduca semplicemente in “gridare”, perché sia chiaro che la forza e la violenza spiccia (fisica, verbale, vocale…) hanno poco in comune.

La terza cosa che accade è che ogni volta che qualcuno dice il proprio nome tutto il gruppo lo ripete insieme … e nonostante lo facciamo da vent’anni a ogni incontro, c’è sempre qualcosa di emozionante nel sentire il proprio nome ripetuto da venti, trenta, cinquanta, a volte cento voci, nel sentire la propria forza amplificata dalla forza di tutti, nel sentire che tutti riconoscono il tuo nome, cioè la tua identità.

Il mese scorso, mentre ricercavamo materiale per il ciclo di fiabe africane a cui stiamo lavorando, ci siamo imbattuti nella storia del popolo degli Ovahimba, un gruppo etnico di 12.000 persone che festeggia il compleanno in modo diverso dal nostro. Per loro la data di nascita di un bambino è fissata non al momento della sua venuta al mondo, né in quello del suo concepimento, ma nel giorno in cui il bambino è pensato nell’animo di sua madre.

Quando una donna decide che avrà un bambino, sceglie con cura un albero sotto il quale riposare e resta lì finché riesce a sentire la canzone del bambino che vuole nascere, fino a distinguerne tutti i suoni; solo allora torna dall’uomo che sarà il padre per insegnargli quella canzone, perché possano intonarla insieme al momento del concepimento.

Durante la gravidanza, la madre la insegna alle donne anziane del villaggio che l’aiuteranno a farlo nascere, e quando è il tempo il bambino viene accolto nel mondo dalla sua canzone. Man mano che il bambino cresce, gli altri del villaggio imparano a conoscerlo e imparano quella canzone, così se il bambino cade, o si fa male, trova sempre qualcuno pronto ad aiutarlo a rialzarsi, che mentre gli tende la mano la intona per fargli coraggio. E ogni volta che il bambino fa qualcosa di meraviglioso o attraversa con successo i riti di passaggio, la sua canzone viene intonata per onorarlo.

E se a un certo punto della sua vita, quel bambino, ragazzo, uomo commette un crimine o un’azione che gli impedisce di vivere in pace con gli altri, viene invitato al centro del villaggio, la tribù forma un cerchio intorno a lui e … intona ancora la sua canzone, cioè gli ricorda chi è e da dove viene. Il villaggio gli restituisce la sua identità e così lo salva, perché ogni uomo – secondo la tradizione del popolo degli Ovahimba – quando riconosce la sua canzone non può più fare qualcosa che danneggi gli altri, gli è impossibile.

Pensate se non ci fossero più canzoni dimenticate, uomini e donne dimenticati.

Come sarebbe il mondo se ognuno si ricordasse la sua canzone, cioè chi è e da dove viene, e gli fosse per questo impossibile fare del male agli altri?

E se in questo tempo lungo di distanze necessarie il nostro modo di stare insieme, di continuare a essere società civile, fosse quello di imparare le canzoni degli altri, cioè chi sono e da dove vengono, e ricordarglielo, e ricordarcelo in ogni momento?

*Partner PRIMAI Manfredonia

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