La comunità educante, un secolo fa
di Oxfam Italia
Angelo Patri
Da alcuni anni, la locuzione “Comunità educante” è tornata alla ribalta. Il lavoro nella e con la Comunità educante è divenuto un must per le azioni di contrasto alla povertà educativa minorile. Non si tratta di un concetto nuovo: modernamente inteso risale almeno agli inizi del ‘900 con il movimento dell’educazione progressiva di John Deweey e l’attivismo pedagogico.
Non era sconosciuto, già un secolo fa, ad Angelo Patri (1876-1965), un grande maestro italo-americano, un educatore aperto e illuminato, un emigrato italiano che fu precursore di una scuola aperta e inclusiva.
Preside di una scuola di New York (nel “famigerato” e multietnico Bronx), si attivò al massimo per conoscere meglio il territorio di riferimento della scuola e ricercare delle “alleanze” significative al fine di offrire ai suoi ragazzi una migliore prospettiva di vita.
Patri (e il suo team) si recava nelle case dei genitori per trovare soluzioni condivise, trascorreva molto tempo on the road per incontrare la gente del quartiere – il dottore, il sarto, il prete, il negoziante, il cameriere del ristorante – e ne ascoltava le storie, i timori, i problemi di ogni giorno. Per conoscere meglio il territorio e la comunità andò ad abitare a breve distanza dall’edificio scolastico.
Per Patri, scriveva Giuseppe Lombardo Radice, «il problema educativo della scuola [è] il problema di tutta la comunità sociale, di cui la scuola è il nucleo. La scuola si mette a capo di un movimento di risanamento morale del quartiere, del rione […]. La scuola si fa animosa, quasi invadente. […] Chi educa è lo spirito educativo comune, che si incarna e si impersona in tutti i congiurati per il bene». Una scuola che accoglie, osserva, valorizza al massimo le esperienze individuali e familiari, fa maturare le potenziali capacità e le aspirazioni di cui i bambini e i ragazzi (e i loro genitori) sono portatori.
Così, mirabilmente, e con parole tutt’ora di grande freschezza, egli scriveva in A Schoolmaster of the Great City – il suo primo libro uscito nel 1917 –, rammentando il quinquennio di apprendistato trascorso nelle strade del quartiere italiano, prima di accedere, undicenne (nel 1887), alla scuola pubblica americana, «laddove ebbe inizio la mia vita nel nuovo Paese», come poi ricordò.
«Ero assorto, come gli altri bambini, a seguire quanto vedevamo fare ai ragazzi più grandi […]. Usavamo un linguaggio sboccato perché loro usavano un linguaggio sboccato. Fumavamo per la medesima ragione. […] Lottavamo con i pugni serrati perché i compagni più grandi ci incoraggiavano a farlo. La strada e i ragazzi che la frequentavano erano i nostri maestri. Era la nostra palestra. I nostri genitori erano preoccupati e spaventati. Ce le davano di santa ragione quando riuscivano a prenderci. Imparammo l’inganno, ad imbrogliare, a mentire e a lottare. In tutto ciò non ci fu mai posto per la scuola. La scuola non aveva niente a che fare con la vita, e noi eravamo impegnati a vivere».
Una sorta di “tempo reale” contrapposto al “tempo morto” di cui spesso i giovani fanno esperienza a scuola. A molti di loro, l’istruzione formale appare come un “sogno altrui”.
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