Le Interviste di Libera il Futuro | parliamo con la Dottoressa Antonella Ciocia

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Il progetto #liberailfuturo continua il suo percorso di interviste con esperti del settore. Oggi intervistiamo la Dottoressa Antonella Ciocia. La presentiamo in questa intervista realizzata dal responsabile della comunicazione del progetto Stefano Bernardini.

Chi è Antonella Ciocia?
La Dott.ssa Antonella Ciocia è ricercatrice CNR – Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali. Co-direttore della rivista Welfare e Ergonomia edita da Franco Angeli. La Dott.essa Ciocia studia, anche in modo comparato, i pilastri del welfare e le trasformazioni storicamente avvenute nell’ambito delle politiche sociali. 

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STEFANO BERNARDINI: Dott.ssa Ciocia, cosa si intente per povertà educativa? Perché si parla di isolamento e deprivazione?

DOTT.SSA ANTONELLA CIOCIA: La povertà educativa riguarda tutte le classi sociali. E’ dunque un fenomeno trasversale perché non configuriamo la povertà educativa come povertà economica, ma è qualcosa di più. La povertà educativa include la povertà economica ma non la spiega completamente. La povertà educativa, nella definizione che abbiamo dato partecipando anche ad un progetto “La Nostra Buona Stella” finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini, è stata definita come mancanza di curiosità, conoscenza e di relazione con l’altro. La mancanza di relazioni è un elemento fondamentale perché determina una vita isolata e quindi povera di contenuti, una vita che vive all’interno di un contesto che è definito, come quello familiare.

Però ci terrei ad aggiungere anche un’altra cosa: la povertà educativa non riguarda soltanto i giovani ma anche gli adulti o anche le istituzioni; non è appannaggio solo della tenera età. Si può essere poveri dal punto di vista educativo anche da adulti e da anziani e proprio in riferimento al desiderio di isolarsi e racchiudersi in un contesto.

Partendo dunque da questo concetto possiamo dire che la povertà educativa negli ultimi 25 anni è stata determinata anche da una omologazione comportamentale. Cioè se mi presento in un determinato modo e con determinati atteggiamenti, se vedo determinate trasmissioni ecc… allora faccio parte di un gruppo. L’appartenenza ad un gruppo non determina la relazione, che è invece entrare in empatia con altre persone. In relazione a questo, gli ultimi due anni ci hanno dimostrato che l’isolamento è pericoloso.

Perché parliamo anche di deprivazione? Il termine in sé testimonia la mancanza, che non è per forza un fatto negativa in sé, perché la mancanza è il motore attraverso il quale posso attivarmi o comunque pormi delle domande e andare alla scoperta delle cose. Però se la mancanza è dovuta ad una mancanza strutturale e che limita la libertà, l’azione e il comportamento, allora si, in quel caso diventa negativo.

STEFANO BERNARDINI: Quali strategie si possono porre in campo per supportare i giovani per contrastare la povertà educativa? E soprattutto, quanto il territorio influisce sulla povertà educativa?

DOTT.SSA ANTONELLA CIOCIA: Parliamo di territorio, giustamente, perché parliamo di una contestualizzazione della povertà educativa. Il concetto, come lo abbiamo definito, è molto ibrido perché va calato nei singoli territori e nelle singole realtà e contestualizzato. Questo è molto importante perché la ricchezza territoriale è uno degli elementi che favorisce invece la ricchezza educativa, poiché il territorio educa alla vita di comunità quindi c’è un senso di educazione civica.

Tutto sommato la povertà educativa è la mancanza di educazione civica, di regole condivise; è la mancanza di stare dentro, di conoscere e riconoscersi in una determinata comunità.

Ecco perché parlavo di povertà educativa anche delle Istituzioni, perché a volte queste ultime hanno una comunicazione unidirezionale rispetto al “pubblico” ma quello non è astrattamente un pubblico, quelli sono i cittadini, i quali devono sentirsi partecipi di quella comunità e costruire il capitale sociale. Come si costruisce il capitale sociale? Attraverso la fiducia.

Avere fiducia significa anche e soprattutto avere consapevolezza dell’appartenenza e avere la responsabilità dell’altro, perchè delle mie azioni non devo dar conto solo a me stesso ma anche agli altri. E qui c’entra appunto l’educazione civica che negli anni è stata cancellata del tutto dal registro scolastico. Questo è un elemento essenziale perché si collega anche al discorso dei ruoli, ossia al riconoscimento dei ruoli che deriva dall’autorevolezza, e non dall’autorità; del convivere, ossia dello stare insieme. A me non piace molto parlare di inclusione sociale perché quando includo in realtà chiudo. Quello che mi piace dire invece è che la comunità, qualsiasi essa sia, deve essere cimentata dalla fiducia e da obiettivi comuni.

STEFANO BERNARDINI: Quindi una comunità aperta. Le cose che sta dicendo sono molto importanti e trovo un parallelismo tra il concetto di Istituzione che deve riconoscere i diritti del cittadino, al di là del fatto che il cittadino debba riconoscere i suoi doveri, e il concetto di Istituzione come Scuola. Come lo stesso il concetto di autorevolezza che ormai è perso.

DOTT.SSA ANTONELLA CIOCIA: Si è perso per ragioni diverse. In questo processo di riconoscimento dei ruoli e di essere cittadini all’interno di una comunità deve essere riconosciuto anche ai ragazzi. Quando parliamo di questioni che hanno a che fare con la povertà educativa e con la comunità educante loro vengono esclusi, perché si pensa di educarli. Come abbiamo detto prima, riguarda gli anziani, gli adulti e le istituzioni e quindi siamo tutti partecipi e i giovani dovrebbero essere i protagonisti della comunità educante così come lo sono tutti gli altri soggetti. Facendo riferimento a questa indagine che abbiamo fatto sul territorio, la comunità educante è un raccordo consapevole tra diversi organismi, nonché tra persone. Il raccordo è una rete, un modo di mettersi in contatto che non ha la rigidità di un organismo strutturato perché nella rete può entrarci il vicino di casa, il venditore, il commerciante… tutti, tutti siamo partecipi. L’educazione è trasversale perché può essere sia verticale che orizzontale. A me piace molto quella orizzontale perché in realtà la comunicazione tra pari è molto più diretta e con le parole giuste è possibile farsi capire e avere risultati maggiori.

STEFANO BERNARDINI: Ha parlato della comunità educante che è una delle domande che avrei voluto farle. Dunque cos’è la comunità educante? Quali sono le responsabilità dei diversi attori che ne fanno parte? Quali sono le strategia per contrastare l’abbandono scolastico legato soprattutto ai bambini stranieri?

DOTT.SSA ANTONELLA CIOCIA: Prima lei parlava della scuola e della perdita di autorevolezza della scuola stessa, ma credo che si sia perso anche il rapporto con le famiglie, che è andato scemando nel tempo. Questo perché un po’ la società è dettata dalle nuove tecnologie in cui tutti, utilizzando un qualunque dispositivo elettronico, ci sentiamo esperti di qualsiasi cosa. Dall’altra parte c’è una grande responsabilità da parte delle Istituzioni che non hanno investito in senso lato nel ruolo della docenza e nella loro formazione.

Quest’ultima, andrebbe quanto meno mirata e soprattutto dovremmo trovare gli strumenti giusti per valutare cosa lascia sul territorio quel tipo di formazione. Ma parlo anche di autorevolezza nel riconoscimento di quel ruolo: lo stipendio per esempio è un indicatore delle professioni, quindi bisognerebbe investire in senso molto ampio del termine. Perché fare il professore, il docente, non è banale ed è uno dei mestieri complicati perché quando si ha a che fare con le persone che devono crescere, c’è bisogno davvero di una grande capacità di comprendere, una grande capacità riflessiva e di mettersi in relazione e in discussione. Tutto questo può venir fuori solo quando il lavoro è fatto con una determinata passione.

Ritornando al discorso delle Istituzioni e a come possano ridurre la dispersione scolastica e avere maggiore attenzione per le figure fragili, come gli stranieri per esempio. Io direi che sono saltati proprio dei riti di passaggio tra i ragazzi negli ultimi tempi, pandemia a parte. Il ruolo che i ragazzi più grandi hanno nei confronti dei più piccoli è importante dal punto di vista educativo e per questo parlo di rito inteso come passaggio, accoglienza, il sapersi raccontare nel proprio vissuto, di come la scuola lo arricchisce. La narrazione che sembra essere lo strumento di tutti i giorni in realtà è più utilizzata come comunicazione mediatica, ma non è la stessa cosa di un’esperienza raccontata. I ragazzi potrebbero essere loro stessi i protagonisti nel far capire che il valore della scuola non è soltanto istruzione ma anche crescita.

Parlando invece degli immigrati che hanno un problema in più in merito soprattutto all’apprendimento della lingua, ciò che conta è un raccordo forte tra terzo settore, società civile e famiglie immigrate. Ecco perché la comunità diventa importante, perché bisogna integrare l’altro, riconoscendo che la diversità non impoverisce, anzi, arricchisce perché da modo di crescere, di farsi domande su come sia possibile vivere diversamente e su quali sono i valori. Quando si fanno i programmi sulla povertà educativa, per esempio ho partecipato a diversi progetti e convegni, gli adulti rimangono fuori da questi programmi e i destinatari sono i ragazzi, ma loro comunque tornano a casa dalle famiglie. Qualsiasi cosa che arriva al ragazzo deve arrivare alle famiglie. Il valore che cerchiamo di trasmettere ai ragazzi dovremmo trasmetterlo prima alle famiglie, soprattutto a quelle con maggiori difficoltà. Perché altrimenti cos’è il welfare se non la riduzione delle disuguaglianze sociali e se non la rimozione di quegli ostacoli che ci consentono di raggiungere una maggiore equità?

STEFANO BERNARDINI: Con la pandemia è sicuramente cresciuto il disagio psicologico del mondo giovanile: ansie, paure e insicurezze hanno determinato la necessità di ascolto e sostegno da parte dei ragazzi. Quali saranno gli effetti a lungo termine dovuti appunto all’emergenza sanitaria? La tecnologia è stata utile in questo periodo? Vede dei pericoli in tema di povertà educativa in merito al nuovo sistema scolastico adottato?

DOTT.SSA ANTONELLA CIOCIA: La pandemia ci ha reso consapevoli di quanto tutti siamo poveri e fragili. La scuola ha reagito molto bene secondo me perché era impreparata ma molto capace di entrare nel sistema mettendosi veramente in discussione. Però molti dati ci indicano che in tanti sono rimasti fuori da questo circuito. Soprattutto i più fragili. Le nuove tecnologie in parte hanno aiutato a non far isolare completamente i ragazzi, dall’altro lato però sono venute meno le pareti e su questo mi spiego meglio. Gli insegnanti sono entrati in casa, cosi come le famiglie sono entrare nella scuola. Gli insegnanti hanno dovuto adottare un nuovo linguaggio perché non si interfacciavano solo con i ragazzi, ma anche con tutto il contesto familiare in cui gli studenti si trovavano in quel momento. Dunque la capacità d’interazione è sicuramente cambiata.

Non so cosa accadrà nel prossimo futuro, ma ciò che intravedo è che ci deve essere adesso la capacità di mixare nel modo giusto l’uso delle nuove tecnologie con una relazione diretta e di trovare un equilibrio senza abusarne, ma con un uso costruttivo. I ragazzi sono molto bravi con la tecnologia ma la vedono come un gioco e sono inconsapevoli di quello che c’è dietro. Quando abbiamo fatto la ricerca sul campo, sono stata in una scuola dove mi ha colpito molto un bambino, con cui ho interagito parlando di un viaggio che lui aveva fatto a Trento con la sua famiglia. Gli ho chiesto come era stato e se gli era piaciuta la città. Lui mi ha risposto di aver giocato tutto il tempo. È come se non fosse mai uscito di casa per fare un viaggio. E in questo episodio ho visto un esempio di povertà educativa: tornare a casa da un viaggio senza arricchirsi a livello culturale. Non so se avesse con sé un cellulare, un computer o un i-pad ma è stato comunque un rapimento da parte di questi strumenti, che non gli hanno dato modo di incuriosirsi del contesto in cui si trovava. Ma anche i genitori in quel caso, sono stati più intenti a tenerlo buono e a distrarlo anziché a renderlo partecipe del viaggio e della scoperta dei nuovi posti.

Ecco perché parlo di trovare un mix giusto nell’uso delle nuove tecnologie. Bisogna portare i ragazzi ed incuriosirli alla costruzione di un gioco e a non associare gli strumenti tecnologici al gioco. Inoltre il possesso di tali strumenti dovrebbe essere garantito a tutti.

STEFANO BERNARDINI: Dott.ssa Ciocia La ringrazio moltissimo della sua disponibilità e ci farebbe molto piacere la sua presenza al Festival di #liberailfuturo. La contatteremo non appena la sua intervista sarà online così potrà non solo rivedersi ma anche diffonderla.

DOTT.SSA ANTONELLA CIOCIA: Senz’altro. La ringrazio dell’opportunità.

Ringraziamo la Dottoressa Antonella Ciocia per questa intervista!

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