Oltre gli stereotipi: servono alleanze contro la devianza e la povertà minorile

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Elaborare soluzioni mentre ci guardiamo agire, crescere nell’incontro fra prassi e innovazione, creare un rapporto di continuità fra agire sociale e rappresentazione di esso, affiancare il lavoro di soggetti con ruoli e punti di vista diversi per un obiettivo comune: il recupero di una fetta della gioventù di questa regione. Questo è quello che da più di un anno il progetto La mia banda è pop sta realizzando.

Il convegno di domani ci interroga su quanto siamo coinvolti e responsabili dei fenomeni di devianza minorile. E lo siamo tutti, in quanto partecipi dei meccanismi che determinano quella condizione. Anche se responsabilità non vuol dire colpa, ma assunzione e rafforzamento della volontà di provare a erodere la cultura che ha alimentato quell’agire più o meno consapevole dei giovani, individuando i meccanismi economici e le determinanti storiche e sociali che affondano nelle diseguaglianze, nella povertà, nella disoccupazione e nel lavoro nero le ragioni di quel delinquere.

Il progetto, giunto ormai a metà percorso, ha fra i suoi obiettivi la costruzione di un modello di intervento innovativo, che avviene attraverso la presa in carico intensiva di 60 ragazzi segnalati dall’USSM e dai servizi sociali territoriali e comprende interventi psicosocioeducativi personalizzati oltre che l’approccio ai contesti di lavoro, per il quale 6 di loro, più orientati verso la costruzione di una propria autonomia personale e familiare, beneficeranno di borse lavoro.

In un bellissimo libro di Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande, c’è un bambino che dice ‘se uno dipinge è come se si levasse un pezzo di lui e lo mette nel disegno, il disegno è te che non sei te.’ Ecco, nella sua sgrammaticatura, questa immagine sembra in grado di esprimere un altro tema su cui si interrogherà il convegno: il rapporto fra politiche di intervento e loro rappresentazioni mediatiche.

Come nel quadro del bambino, infatti, l’informazione è il disegno, è ‘il te che non sei te’ dell’agire sociale. Da un lato l’informazione deve ridurre la complessità della realtà per renderla intellegibile e il lavoro sociale dall’altra di quella complessità deve fare base, per contrastarla. Ma le due cose sono correlate. L’informazione è specchio e espressione del processo che i diversi soggetti costruiscono per affrontare le questioni, ma l’informazione è essa stessa soggetto attivo di questo lavoro sociale.

Lo stereotipo è una scorciatoia cognitiva, una forma di presentazione della realtà semplificata. E quando si è nel tempo della velocità, come è oggi il nostro tempo, le formulazioni semplificatorie sono una buona ancora di salvezza. Non c’è necessariamente malafede nel raccontare la realtà a una dimensione, ma c’è il pericolo di riproduzione un po’ automatica, che sembra una più facile chiave di lettura e una rassicurazione per fornire quell’a me non potrà capitare, che aiuta. Quello che ci piacerebbe è che si uscisse da un discorso standard su questi temi e che a farlo fossero le istituzioni e i soggetti del terzo settore, ma anche i professionisti dell’informazione che maneggiano parole forti e a forte impatto emotivo, che tendono a disegnare un mondo ,in cui i buoni sono da una parte e i cattivi dall’altra, rassicurante e assolutorio. Il confronto dialogico per sovvertire l’impostazione tradizionale può essere una buona strada per la costruzione di un processo nuovo. Di intervento e di rappresentazione.

(articolo a firma della professoressa Giustina Orientale Caputo uscito su Repubblica Napoli il 30 novembre 2023)

 

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