Dare un nome alle emozioni attraverso il gioco

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In un tempo particolare come quello che stiamo vivendo, a causa delle restrizioni imposte dal governo per cercare di limitare il contagio da Coronavirus, le emozioni che proviamo sono così complesse e mutevoli da essere difficile persino per noi adulti riconoscerle e verbalizzarle.
Pensiamo quanto questo sia ancora più difficile per i bambini, il cui sviluppo (cognitivo, intellettivo ed emotivo) è ancora incompleto.

Anche se i bambini imparano già in età prescolare ad esprimere verbalmente i propri sentimenti, ciò può risultare più difficile in momenti di forte stress e nel caso di sentimenti complessi come tristezza, preoccupazione e ansia.
In questi casi è importante che il bambino sia ascoltato con empatia dal genitore che gli fornirà poi rassicurazioni in termini realistici, spiegando cosa mamma e papà stanno facendo di concreto per aiutarlo e proteggerlo.
Non per tutti i bambini è però semplice parlare del proprio mondo interiore. In questi casi può essere utile farlo attraverso modi alternativi come il gioco.

Il gioco può essere considerato una vera e propria forma di apprendimento attraverso la quale il bambino consoce se stesso e il mondo che lo circonda.
Il gioco oltre ad essere fondamentale per lo sviluppo intellettivo, affettivo e relazionale del bambino, svolge diverse funzioni:
– divertimento;
– esplorazione delle proprie capacità;
– attività liberatoria di tensioni nervose ed emozioni forti (paura, rabbia, gioia..);
– occasione di acquisizione e sviluppo delle regole della socializzazione.

Secondo Jean Piaget possono essere individuati nel corso dello sviluppo tre tipi di giochi:
1. giochi di esercizio
Sono presenti fin da primi mesi di vita e perdurano fino ai 15-18 mesi. Sono giochi “senso-motori” poiché consentono di conoscere il mondo attraverso la manipolazione di oggetti e le sensazioni ad esso collegati come battere o avvicinare un oggetto alla bocca.
2. giochi simbolici
compaiono verso i 24 mesi, quando il bambino ha acquisito la capacità di rappresentarsi le cose anche quando non ci sono più attraverso dei simboli. Il bambino tratta un oggetto come se fosse qualcosa di diverso, ad esempio usa la scopa per fare il cavallino.
3. giochi con regole
Compaiono verso i 7-8 anni. Le regole del gioco da dover rispettare, rendono l’aspetto ludico più sociale, avvicinandolo al mondo reale.

Dunque si inizia a giocare molto presto, già dal primo anno di vita, con gli oggetti e con le figure di riferimento e, dal secondo anno in poi, con la comparsa del gioco simbolico, più comunemente detto “gioco del far finta” in cui il bambino è capace di far riferimento ad una realtà non percepita.
Il gioco simbolico è una tappa fondamentale dello sviluppo che consente al bambino di esprimere il proprio mondo interiore e di imparare a costruire e strutturare lo sviluppo della propria personalità: quanto più il bambino avrà modo di vivere esperienze di gioco simbolico, tanto più potranno svilupparsi le sue capacità cognitive, sociali, relazionali ed emotive.
Con il tempo il gioco diventa più complesso e dai 3 ai 6 anni il bambino mette in atto delle vere e proprie situazioni immaginarie: “facciamo finta che.. io sono la mamma e tu la figlia?”
I genitori possono sedersi per terra con i figli portandoli ad esternare le proprie emozioni attraverso il gioco, intervenendo anche loro, dando voce all’azione dimostrando al bambino di aver capito quanto egli sta dicendo.

Anche i giochi di ruolo possono essere molto utili per ampliare la gamma di sentimenti che il bambino può comunicare. Il genitore può rispondere all’azione del figlio con il comportamento che rievochi il comportamento evitato. Ad esempio, se il bambino ha il terrore di parlare della rabbia, il genitore creerà nel gioco proprio una situazione che possa suscitare rabbia nell’altro chiedendo poi al bambino: “Cosa provi ora? Come pensi di reagire?”.
Si offrirà così al bambino l’opportunità di verbalizzare alcuni dei sentimenti di cui ha paura.

Ma attenzione!! Tutto questo non basta!
Occorre che il genitore sappia tornare bambino e lasciarsi coinvolgere nel gioco dando voce anche al proprio mondo interiore; solo così infatti il bambino imparerà progressivamente a farlo, attraverso l’imitazione e la sconcertante scoperta che dare un nome alle proprie emozioni non è poi così spaventoso.

E voi riuscite a parlare del vostro mondo interiore con i vostri figli?
E i vostri bambini riescono a farlo? Qual è l’emozione più spaventosa di cui parlare?

Lasciate qui di seguito i vostri commenti e noi saremo pronte a raccogliere le vostre esperienze come spunti di riflessione per i prossimi articoli.

Alessia Bertrando
Dott.ssa in Psicologia dello Sviluppo, dell’Educazione e del Benessere

BIBLIOGRAFIA

CAMAIONI, DI BLASIO [ 2002], Psicologia dello sviluppo, Bologna, Il Mulino.
GREENSPAN [2005], Il bambino sicuro come aiutare i nostri figli a sentirsi protetti e fiduciosi in un mondo che cambia, Roma, Giovanni Fioriti Editore.
MOCCIARO, LO GULLO [2003], Lo sviluppo umano nell’arco di vita, Roma, edizioni Kappa.

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