Scuola al centro e lavoro di gruppo per dare ai giovani più competenze

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L’Emilia-Romagna è tra le regioni più virtuose in Italia, ma non bisogna abbassare la guardia: anzi, occorre intensificare e coordinare le azioni per arginare gli abbandoni scolastici e dare a tutti i giovani un posto nella società. Il messaggio arriva chiaro e forte da Edoardo Soverini che per l’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna si occupa del tema nell’ambito territoriale di Bologna. È uno dei partner principali del progetto I.C.E. (Incubatore di comunità educante), che mira proprio a contrastare la povertà educativa e la dispersione scolastica, in particolare nella fascia adolescenziale, creando un sistema multidisciplinare e integrato tra scuole, istituzioni e terzo settore.

Soverini, che dimensione ha il fenomeno in Emilia-Romagna e sul territorio metropolitano di Bologna?
“La nostra regione è allineata alla media europea ed è tra le più virtuose a livello nazionale. Nel 2017 abbiamo raggiunto l’obiettivo europeo di contenere il tasso di dispersione scolastica come Elet (Early leaving from education and training) sotto il 10%. Nel biennio secondario superiore il tasso di abbandono vero e proprio è di poco meno dell’1%, sale al 4% considerando tutto il secondo grado superiore. Siamo però lontani dai migliori Paesi europei come la Germania, soprattutto considerando gli Elet nel loro complesso. A livello provinciale, inoltre, scontiamo le difficoltà di un territorio eterogeneo come quello metropolitano. Un indicatore particolarmente critico è quello dei “Neet”, i giovani tra i 15 e 29 anni che non studiano né lavorano, che negli ultimi anni sono aumentati drasticamente in Emilia-Romagna. Tra il 2004 e il 2011 l’incremento è stato di quasi il 60% e la tendenza è proseguita negli anni successivi: il territorio bolognese non fa eccezione”.

Quali sono le cause della dispersione scolastica?
“Tutte le risultanze che abbiamo a livello territoriale, regionale e nazionale, ci dicono che uno dei fattori principali è la deprivazione dei contesti sociali e familiari, che negli ultimi anni sono peggiorati a causa della crisi economica. Al disagio sociale si unisce l’inadeguatezza dei circuiti esterni alle scuole, che non sanno cogliere le istanze inespresse dei giovani e rispondere ai loro bisogni. Ma ci sono fattori anche all’interno del sistema scolastico, come la rigidità di alcuni modelli educativi e il dimensionamento delle classi che, con un rapporto elevato tra alunni e docenti, rende difficile contrastare il fenomeno seguendo tutti i casi con le risorse che necessiterebbero. Così gli studenti, di fronte a un insuccesso scolastico, non hanno reti di supporto e sono indirizzati verso l’abbandono”.

Il progetto I.C.E. mira a condividere – tra educatori, insegnanti, operatori sociali, amministratori pubblici e famiglie – i linguaggi e gli strumenti di contrasto all’abbandono scolastico. È la strada giusta?
“È la strada obbligata. Gli interventi di prevenzione e di soccorso agli studenti che stanno o hanno già abbandonato gli studi, oggi devono necessariamente coinvolgere più attori, perché chi si trova in difficoltà ha bisogno di questo. Le scuole devono poter interagire virtuosamente con gli educatori, con il terzo settore, con le istituzioni e il progetto I.C.E. ha colto proprio questa sfida: pensare e coordinare gli interventi di contrasto a livello territoriale. Le scuole devono rimanere il perno di questo sistema ed è altrettanto importante coinvolgere le famiglie, ridando loro centralità”.

E qual è l’aspetto principale su cui intervenire, considerando nello specifico la fascia adolescenziale?
“Prendendo spunto dal sistema tedesco che citavo prima, dovremmo valorizzare tutte quelle esperienze sul territorio che favoriscono la presa di coscienza da parte dei giovani sul ruolo che possono avere nella società e sul rischio che corrono abbandonando gli studi. Dove questo si fa, la dispersione scolastica, per non dire della disoccupazione, ha valori drammaticamente più bassi”.

Che consigli si sente di dare a chi opera nella prevenzione e nell’intervento sul drop out?
“Di ascoltare il disagio e le criticità, i singoli e i gruppi, senza però perdere di vista l’obiettivo del recupero. Di investire sulla personalizzazione dei percorsi, ma con una flessibilità ponderata. Di coordinare tutte le azioni. Ma chi lavora nella e per la scuola deve soprattutto mantenere la barra dritta sull’innalzamento delle competenze degli studenti, perché è senza competenze che rischiano di perdersi”.

Photo credit: Lindsay HenwoodUnsplash

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