Servizio sociale, relazione di cura. Intervista a Teresa Bertotti

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Teresa Bertotti è professoressa associata di Servizio Sociale nel Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento e fa parte del Comitato scientifico del progetto DREAM. È autrice di alcuni testi fondamentali* per chi lavora – o si forma per lavorare – nel sociale. Prima di scegliere la carriera universitaria, è stata a lungo e convintamente assistente sociale, entrando a far parte poco dopo la laurea del CBM, il Centro per il bambino maltrattato e la cura della crisi familiare di Milano, che aveva aperto le sue porte da pochi anni.

È da qui che parte la nostra conversazione.

Da sinistra a destra, la prof. Teresa Bertotti, Petra Filistrucchi, vice presidente di Artemisia, e Marianna Giordano, presidente di CISMAI.

Quali sono gli elementi più significativi dell’esperienza fatta con il CBM?

Quando negli anni 80 viene fondato il CBM l’intento era di mettere insieme due questioni che oggi sembrano molto polarizzate: da un lato si riconosceva l’esistenza del maltrattamento all’infanzia, dall’altro lo si affrontava in chiave evolutiva, cercando una terza via tra abbandono dei bambini e colpevolizzazione dei genitori. E questa era la parte della “cura della crisi familiare” contenuta nel nome della cooperativa

Quella del CBM è stata senz’altro un’esperienza di frontiera, perché all’epoca ci si occupava della trascuratezza dei bambini con quella che io chiamo la “politica dei pannucci caldi”… ovvero piccoli interventi per risolvere sul momento una situazione critica, realizzati dai servizi sociali degli enti locali.

Al contrario, questo centro metteva insieme, nello stesso edificio, una comunità di accoglienza per bambini e un luogo di lavoro con le loro famiglie. Si intendeva dare visibilità al fatto che il maltrattamento dei bambini esisteva, ma andava visto e affrontato come una ‘crisi’ delle relazioni familiari. Il nome scelto però se era utile per dare visibilità e aumentare la coscienza sociale, non andava bene per i genitori, che rifiutavano di sentirsi definire “maltrattanti”, né per i bambini, che dicevano di se stessi “noi siamo del CiBi”… togliendo la M. Oggi abbiamo un’altra sensibilità rispetto alle denominazioni.

Uno dei cambiamenti importanti è il peso maggiore che oggi si dà alle parole.

Lei approda dunque alla docenza universitaria dopo questa prolungata esperienza sul campo, al CBM, dove ha lavorato per 25 anni con diversi ruoli. Quanto e cosa, della sua esperienza lavorativa, ha influito sul suo percorso di ricerca e di insegnamento e come ha orientato il suo lavoro universitario?

Il CBM era un posto speciale perché era un “luogo pensante”, e questo è quello che servirebbe sempre. Non occorre essere un organismo privato, per essere pensante. Cosa intendo con pensante? Era un gruppo di lavoro che discuteva quello che faceva: trattandosi di una esperienza pionieristica, che aveva forte l’esigenza di presentarsi all’esterno e affermare l’esistenza di un problema e la possibilità di farvi fronte, era spinta a riflettere sul proprio lavoro. Questo dedicare del tempo a pensare perché fai certe cose e a spiegarlo ad altri/e per me è stato molto formativo.

Chi lavora nelle relazioni di aiuto sperimenta la cosiddetta compassion fatigue, la fatica della compassione, del mettersi nei panni dell’altro, occuparsi del dolore dei bambini, della rabbia, della violenza. Del dolore, la rabbia, la disperazione dei genitori, e dare spazio alla voglia di reagire e ricominciare. Riflettere su quello che si faceva era anche un prendersi cura di noi professionisti/e. E poi non si finisce mai di imparare.

Nel mio voler entrare in accademia, in un tempo della vita non usuale, ero animata dal desiderio di avvicinare la pratica al sapere e alla ricerca, e viceversa, in modo che le conoscenze fossero “utili”. Mi chiedi come si fa. È una domanda importante, senza facili risposte e che sarebbe interessante indagare meglio. Credo che sul versante della pratica occorrano delle conoscenze hands on, cioè immediatamente utilizzabili, che forniscano chiavi interpretative per analizzare i fatti, per capire se le proprie scelte sono adeguate e funzionanti oppure no, se un certo intervento è utile oppure bisogna cambiare.

Per contro, per gli accademici, offrire conoscenze immediatamente utilizzabili è difficile. Chi sta nella dimensione scientifica e della ricerca, specialmente in questi ambiti, ha in mente la complessità e la variabilità delle situazioni. Per questo, pur provenendo dalla comunità professionale, diffido degli strumenti troppo standardizzati, sul modello medico. E cerco di instillare in chi studia con me il gusto della riflessione critica.

 

La Prof. Teresa Bertotti, prima a destra, interviene al corso di formazione organizzato nell’ambito del progetto DREAM.

Infatti chi lavora sul campo, lo abbiamo visto anche durante la formazione del progetto DREAM, denuncia spesso uno iato tra le teorie apprese e la pratica quotidiana. Cosa si può fare per ridurlo?

Ci si può fermare a denunciare lo iato oppure si può provare a fare il contrario e rafforzare molto il rapporto tra università e servizi sociali. In altri contesti si sta sviluppando la practice research, ovvero la ricerca che accompagna la pratica, che parte dal basso, dai problemi concreti e li esplora con i soggetti direttamente interessati, siano essi operatori o persone direttamente coinvolte, e cerca ragioni, possibili  interventi, strade per ulteriori miglioramenti. Nel sociale non funziona l’approccio top down, dalla teoria alla pratica. Questo tipo di ricerca serve a far emergere e a ragionare sulla cosiddetta “saggezza della pratica”, sistematizzando e inquadrando in una cornice di riferimento quel bagaglio esperienziale, di conoscenze, che altrimenti restano non esplorate, non riconosciute, disperse.

Per fare questo, sarebbe utile però anche che chi lavora nei servizi sociali acquisisca una “mentalità di ricerca” in cui ci si interroga e si costruiscono luoghi di lavoro “pensanti”, riflessivi, aperti e disposti a cercare di capire mettendosi in relazione con chi fa ricerca. Questo significa che gli enti dovrebbero includere, nei loro progetti, una componente di ricerca, da realizzare in collaborazione con un’università. Oggi troppo invece si tende a viaggiare spesso per compartimenti stagni.

Che tipo di formazione è attualmente proposta dai corsi universitari per gli/le assistenti sociali e gli/le studenti di scienze sociali che vogliono lavorare nell’ambito dell’abuso all’infanzia e dei servizi di tutela dei minori?

Non c’è, né sono cosi convinta che dovrebbe esserci, una formazione specifica sul maltrattamento all’infanzia, perché è importante che chi si affaccia alla professione sviluppi delle robuste competenze generali e trasversali, capaci di adattarsi ai diversi contesti. Queste competenze si sviluppano in un buon corso di laurea di servizio sociale, triennale e, a livello più avanzato magistrale. È a questo livello o con specifici master, che si possono acquisire competenze specifiche sul lavoro con i bambini e le famiglie.

Anche se dopo la laurea triennale si può accedere direttamente alla professione, dopo aver fatto l’esame di stato, io sconsiglio ai/lle neolaureati/e di lavorare immediatamente sulla tutela minori, perché è un campo denso di tensioni contrastanti, in cui serve un contesto che ti sostiene. Fare un master, quando si ha già più chiaro in quale campo del servizio sociale si vorrebbe esercitare, è certamente una soluzione ottimale.

Un altro momento della formazione con la prof. Teresa Bertotti organizzata nell’ambito del progetto DREAM.

Il lavoro in rete, tra enti e istituzioni con diverse responsabilità e obiettivi, è ormai una prassi consolidata del lavoro su abuso e maltrattamenti. Quali sono le competenze specifiche richieste per un lavoro in rete efficace a suo modo di vedere? 

In una situazione complessa, come è sempre quella del maltrattamento all’infanzia, è molto importante che gli operatori siano in connessione gli uni con gli altri, e diano senso al lavoro di tutti. È importante avere un linguaggio comune, ma bisogna anche saper riconoscere le differenze, le specificità di ciascun professionista o ente, e farle interagire all’interno di un sistema di senso. Ci vuole pazienza, capacità di negoziazione, visione d’insieme: poiché le reti sono tali quando riescono a individuare un oggetto comune e sono finalizzate a uno scopo riconosciuto e condiviso da tutti coloro che ne fanno parte. Così è più facile che si creino dei reciproci riconoscimenti in cui anche le persone si orientano e sanno chi fa che cosa. Invece per es. per gli/le assistenti sociali non sempre è chiarissimo se il proprio ruolo è semplicemente quello di “connettore” tra specialisti diversi, oppure se hanno anche dei compiti specifici rispetto alla persona seguita.

Qui stiamo parlando di reti istituzionalizzate. In quelle che abbiamo studiato, abbiamo rilevato diverse criticità, in particolare proprio nella gestione delle reti stesse, che difettano a volte di una organizzazione funzionalizzata, articolata intorno a ordini del giorno chiari, a modalità di comunicazione efficienti, non dispersive. Ma queste non sono purtroppo competenze che si acquisiscono con una formazione teorica, universitaria. Occorre invece costruire una cultura del servizio, per la quale sarebbe molto utile ciò che dicevamo all’inizio, ovvero una capacità riflessiva o una “ricerca pratica” come quella che si sta sviluppando in altri paesi.

Come può l’università sostenere l’impegno dei/lle professionisti/e che lavorano sul campo? 

Il tema della cura del sé professionale è essenziale. Oggi notiamo che questi aspetti sono invece spesso trascurati e anche nel lavoro sociale si fa spazio piuttosto un’etica performativa, anziché un’etica della cura. Che va invece introdotta affrontando il tema della vulnerabilità, dell’interazione, della sostenibilità anche in relazione ad aspetti quali la crisi ambientale. Ma non sono discorsi che si sentono spesso nei servizi. E in generale anche per noi accademici non è facile affrontarli. Ci vorrebbero approcci davvero multidisciplinari, molto più multidisciplinari di quanto si faccia oggi nelle università.

Un momento dei lavori di gruppo durante la formazione organizzata nell’ambito del progetto DREAM.

Lei fa parte del Comitato scientifico del progetto DREAM e ha contribuito all’elaborazione dei due percorsi formativi proposti dal progetto: di base e specialistico. Può illustrarne le caratteristiche, i principi e obiettivi, le modalità con cui si è cercato di rispondere alle criticità e ai bisogni formativi emersi, l’integrazione degli approcci dell’Università di Trento e del CRIDee? 

L’elaborazione dei percorsi formativi è stato un lavoro collettivo, che ha visto un input importante da parte di Artemisia, a cominciare da Petra Filistrucchi ed Elena Baragli, anch’esse nel Comitato scientifico. La collaborazione con il CRIdee, Centro di ricerche dinamiche evolutive ed educative dell’Università Cattolica di Milano, con il team del prof. Milani, allievo di Paola Di Blasio, è stata una bellissima occasione umana, e anche un po’, per me, un rimettere insieme dei pezzi del mio passato, chiudere un cerchio, dato che anche Paola Di Blasio lavorava al CBM. Oggi mi rendo conto che si tratta di due anime piuttosto diverse, e questa è stata un’interessante sfida e complessità.

Aver deciso di fare dei webinar con tante persone, è stato una buona idea per tenere insieme aspetti più cognitivi con il bisogno di ampliare la platea delle persone che potevano partecipare. Poi certo gli incontri in presenza offrono un altro tipo di interazione.

Alla facoltà di Sociologia di Trento, dove insegno, cerchiamo di alimentare molto la partecipazione dei soggetti alla ricerca sociale, in particolare grazie all’impulso e alla competenza della collega prof.ssa Silvia Fargion. Per esempio, per una ricerca sulla qualità dei servizi per la tutela dei minori abbiamo istituito un gruppo consultivo del quale fanno parte dei ragazzi di Agevolando, che ci hanno aiutato a stendere l’intervista per la ricerca. Per una ricerca nazionale sulla genitorialità è stato fatto lo stesso con alcuni genitori.

Questo è un approccio nuovo, che ha permeato il mio contributo nell’ambito del progetto DREAM. Perché ci ha permesso di tenere sempre presente un punto centrale, ovvero il fatto che le famiglie, le persone, gli operatori devono capire il perché di certe scelte, il senso degli interventi. Troppo spesso infatti i soggetti dell’intervento, ma talvolta anche le operatrici e gli operatori, dicono: “Noi non capiamo quello che i servizi sociali fanno”. E questo finisce per generare non solo una paura dei servizi sociali, documentata da molte ricerche, ma più in generale una diffidenza nei confronti dell’intervento sociale, tanto più rispetto a una tematica che polarizza, come quella della violenza contro le donne e i minori. Il CRIdee ha portato alla formazione DREAM una grande competenza e tanti strumenti. Lo sforzo che abbiamo fatto insieme è stato di inserire questi strumenti nella relazione di cura, perché solo se si iscrivono in una relazione sono davvero trasformativi.

 

* Testi di Teresa Bertotti utili per chi lavora nel sociale

Bambini e famiglie in difficoltà. Metodi di intervento per assistenti sociali (Carocci, 2012)

Decidere nel servizio sociale. Metodo e riflessioni etiche (Carocci, 2016)

– con altri/e, Il servizio sociale: le competenze chiave (Carocci, 2021)

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