La bellezza e la cultura contro l’impoverimento educativo. Parola a Ugo Morelli

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La bellezza contro la povertà educativa

Non sappiamo se la bellezza salverà il mondo, ma certamente la volgarità lo distruggerà, ha sostenuto il premio Nobel per la letteratura Iosif Brodskij. Porre la bellezza al centro di un progetto di ricerca e intervento per affrontare l’impoverimento educativo è un atto di innovazione di notevole portata, giustificato dai più recenti risultati della ricerca scientifica. Di Bellezza si Vive è un progetto selezionato nel bando UN PASSO IN AVANTI della Fondazione con i Bambini, giudicato tra i diciotto progetti nazionali più innovativi che, coerentemente con l’obiettivo del Fondo, contribuiscono a rendere operante una strategia nazionale di lotta alla povertà educativa dei minori, con effetti di lungo periodo.

Il progetto insiste sulla ricerca per affrontare l’impoverimento educativo. L’obiettivo è realizzare, con un percorso di ricerca-azione sperimentale della durata di quattro anni, un metodo educativo originale, validato scientificamente e trasferibile in ambiti diversi (famiglia, spazi di vita pubblici, scuola, luoghi culturali, mondi digitali) che dimostri come la bellezza generi esperienze, che, estendendo il potenziale emozionale, cognitivo e comportamentale degli individui e delle comunità, possono contrastare la povertà educativa, migliorano le condizioni di vita e riducendo i costi sociali. Facciamo un esempio.

La codificazione dello spazio fisico circostante coinvolge l’ippocampo e la corteccia prefrontale, definendo distanze e direzioni tra località. Risultati recenti di ricerca hanno suggerito che gli umani usano gli stessi processi neuronali per organizzare i loro ricordi come punti di una mappa interna di esperienze. Verificando se le stesse regioni cerebrali e i relativi codici neurali supportano lo spazio e vengono reclutate quando gli umani usano il linguaggio per organizzare le proprie conoscenze o rappresentazioni semantiche categoriche, si ottengono conferme sperimentali, come mostrano M. Piazza, S. Viganò del CIMEC, [Distance and direction codes underlie navigation of a novel semantic space in the human brain, Journal of Neuroscience, 2020; 10.1523]. Embodied cognition e movimento nello spazio sono collegati, fornendo una base conoscitiva utile per sostenere l’ipotesi che risonanze di particolare valore estetico possono estendere le potenzialità soggettive.

 

Un’ecologia circolare della conoscenza

La validazione scientifica del metodo è funzionale alla costruzione di un modello che trasformi l’apprendimento tradizionale, fondato sul comando, accumulazione e controllo di informazioni, in un’ecologia circolare della conoscenza basata sulla capacità degli individui di riconoscere, selezionare e interiorizzare i saperi. Al centro dell’apprendimento vi è dunque la relazione tra chi educa e chi è educato, sullo scenario di una nuova alleanza tra scienza, discipline umanistiche, arti, paesaggio, tecnologie. A fondamento di questo processo è posta dunque l’esperienza di Bellezza, che lungi dall’essere mera componente esteriore dell’esperienza o della realtà e dal rispondere semplicemente a un canone, ha la facoltà di estendere ciò che l’individuo e le comunità sentono di poter essere e diventare.

La rete di partenariato è composta da: Il Manto – Cometa; Fondazione Horcynus Orca; ON Impresa Sociale; Dipartimento Educazione Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea; MCG Studio Associato; INFN; Fondazione Moderni; Aragorn; Assifero.

I partner rappresentano una comunità educante multidisciplinare con un’esperienza nazionale ed internazionale esemplare in azioni di accoglienza, educazione, fruizione culturale, ricerca pedagogica e clinica, divulgazione scientifica, formazione di minori e adulti, sperimentazione di economie etiche, circolari, solidali e inclusive capaci di promuovere coesione, sostenibilità ambientale, rigenerazione umana. Attraverso un processo di co-progettazione essi generano un expertise complessa ed originale, caratterizzata da competenze trasversali e meta-disciplinari che punta, attraverso un processo aperto e partecipativo, a integrare pratiche a politiche educative.

 

Metodo e impatto

La metodologia adottata RBL – Research Based Learning, strumento scientifico su cui si fonda l’intero percorso di ricerca-azione del progetto, si basa sull’assunzione dei più avanzati esiti di ricerca scientifica sull’apprendimento, educazione e animazione, ponendo al centro l’intersoggettività e la relazione.

L’elemento innovativo primario del progetto risiede dunque nella creazione di gruppi operativi centrati sull’esperienza estetica con riguardo particolare all’arte, alla creatività e al paesaggio, alla scienza, al fine di sostenere l’estensione dell’espressione emozionale e cognitiva di sé nella relazione con gli altri e attivare legame sociale di supporto alla crescita individuale e collettiva. Beneficiari delle azioni di progetto sono 1400 minori tra gli 0 e i 17 anni insieme a famiglie, comunità di educatori e insegnanti, etc.

Gli impatti attesi sono molteplici: i minori avranno capacità migliori di ascolto/confronto con gli adulti e crescita delle hard e soft skills basate sull’esperienza; le figure professionali saranno più consapevoli e competenti nel gestire interventi educativi complessi; le scuole disporranno di ulteriori strumenti per accompagnare la crescita educativa e civica dei minori; le famiglie avranno strumenti utili per accompagnare i figli nello sviluppo cognitivo-emotivo-comportamentale e nelle scelte di vita; le comunità acquisiranno nuova coscienza verso il proprio ruolo sociale ed educativo di fronte al disagio.

A livello politico-istituzionale si intende proporre ai soggetti pubblici competenti di sostenere la disseminazione e l’adozione sperimentale del nuovo metodo educativo da parte di scuole e agenzie formali e non formali come strumento di lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa.

 

Risonanza originaria. I fondamenti del progetto

Prima di riuscire a narrarli, gli altri e le cose del mondo, ma soprattutto e in primo luogo l’altro, devono aver esercitato su noi un richiamo originario. Quando abbiamo preso almeno una certa distanza dalle cose, è stato possibile considerarle, sollevarle da dove se ne stavano, e ascoltare la risonanza che creavano in noi. Ecco: forse la bellezza primigenia è emersa da esperienze originarie simili. Quel che fa la nostra distinzione umana, allora, probabilmente prima ancora del linguaggio, è il fatto che possiamo staccarci simbolicamente dalla natura, prendere una distanza che ci permette di farne esperienza corporea e visiva col nostro movimento e col nostro sguardo. Così che quando l’altro e la natura di cui siamo comunque parte risuonano in noi, in modo particolarmente profondo, noi chiamiamo bellezza l’esperienza che estende e aumenta noi stessi in modi e per vie che senza quella esperienza non sarebbero possibili.

Non si risolve solo nello sguardo la bellezza, pur se a noi apparirebbe immediato il primato dell’occhio. Se l’occhio vuole la sua parte, pare trattarsi appunto di una parte. Di bellezza si vive perché a essere coinvolto è tutto il nostro corpo, con il cervello che contiene e la mente che ne emerge: tutti i nostri sensi nella loro collaborazione sinestetica danzano col mondo mentre risuona in noi. In quell’accoppiamento che richiama la comunanza originaria col vivente possono esserci, e ci sono, esperienze che ampliano il senso del possibile, estendono quel che sentiamo, aumentano quel che siamo e pensiamo di essere. Se l’estetica non riguarda solo l’aspetto esteriore delle cose, ma attiene al nostro legame col mondo, l’esperienza di bellezza ne è la fonte e il codice. Un codice affettivo, emozionale, che collega mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di immaginazione. L’estensione di sé, negli spazi aperti della nostra imperfezione e incompletezza, concede la possibilità di accedere al senso della verità di ognuno e sostiene la via della propria individuazione e il coraggio di essere. Come ha scritto il giovane poeta John Keats: “Bellezza è verità, verità è bellezza. Questo solo sulla terra sapete, ed è quanto basta”.

 

La bellezza è una domanda

Ciò che non conosci lo trovi dove non sei mai stato”, afferma uno dei proverbi africani raccolti da Marco Aime, [Il soffio degli antenati. Immagini e proverbi africani, Einaudi, Torino 2017]. Quando Josif Brodskij, in occasione del conferimento del premio Nobel per la poesia e la letteratura, sostenne che uno dei principali problemi del nostro tempo è la volgarità, e che solo la bellezza avrebbe potuto salvarci, non avevamo forse compreso fino in fondo quanto fosse nel giusto. Ma si sa, è dei poeti vivere al di sopra delle proprie possibilità, come diceva sempre Luigi Pagliarani. Brodskij poi aggiunse che l’estetica è la madre dell’etica, perché la contiene, completando una diagnosi e un progetto per cambiare la nostra vita. Non l’abbiamo ascoltato. La volgarità, e non la bruttezza, si propone nel nostro tempo come il contrario della bellezza; così come l’indifferenza, e non l’odio, è il contrario dell’amore. Se il bello è passione e distacco; se è perfino un certo livello di disinteresse che separa il bello da altre forme di passione, anche il brutto è passione e richiede di essere capito e giustificato, come ha sostenuto Umberto Eco in un testo sul brutto, [Sulle spalle dei giganti, La nave di Teseo, Milano 2017]. Ci rendiamo subito conto che siamo sulla soglia di noi stessi, al margine generativo del possibile, dove si profilano le condizioni per estendere e aumentare il nostro mondo interno e le frontiere del sensibile. È lì che si combinano la generatività creativa umana e la bellezza come estensione della capacità e delle possibilità di accedere al mondo e sentirlo, proprio per il distacco appassionato che ci coinvolge e, a volte, travolge.

Della creatività poetica di Osip Mandel’stam è stato scritto: “Per lui non c’è distanza tra impulso e azione…”.

Guardando Mandel’stam “sembra di spiare il concreto lavoro fisiologico della creazione”, come si legge in Osip. M. Mandel’stam, Quasi leggera morte. Ottave, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 2017.

Sempre Eco ne Il nome della rosa aveva scritto: “tre dita tengono la penna, ma il corpo intero lavora. E dolora…”.

La bellezza rivela quello che senza la sua esperienza non avremmo sentito e incontrato, e allo stesso tempo, per farlo, ri-vela, pone un nuovo velo, una nuova soglia, una nuova domanda che prima di quella esperienza non saremmo stati in grado di porci. La bellezza non si lascia ricondurre a uno stato cristallizzato perpetuamente nella propria fissità. L’evento o l’avvento della bellezza, il suo emergere, è sempre un processo, una tensione: quest’ultima è, probabilmente, lo stesso modo di essere della bellezza.

 

Sporgersi sulla soglia

Con la bellezza siamo di fronte a uno slancio continuamente ripetuto, che ogni volta si presenta come nuovo. In quanto unici e capaci di presenza, cioè di esserci e di sapere di esserci, noi esseri umani tendiamo alla pienezza della nostra espressione e siamo virtualmente abitati dalla capacità di creazione e di bellezza, soprattutto dal desiderio di bellezza. Siamo in grado di trascenderci tendendo all’oltre rispetto a quello che siamo già e che c’è già: siamo in grado di interrogarci e di manifestare la dimensione esclamativa dell’aperto. Quella provvisoria e relativa socchiusura del dominio di senso e dell’universo dei significati, ci porta sulla soglia dell’inedito e a un’estensione di noi stessi e ha a che fare con l’accessibilità alla bellezza. È, parafrasando Coleridge – che ha cantato la lanterna di poppa, che diventa traccia del viaggio del marinaio – che possiamo immaginare una lanterna di prua in grado di illuminare e indicare la via dell’accessibilità al possibile che abbiamo davanti.

La bellezza sembra essere frutto di una vista superiore alla vista sensibile, l’epopteia, cioè la capacità di vedere più in là. Ciò ci porta, come vale ribadire, oltre il primato dell’occhio e della visione come fondamenti dell’esperienza di bellezza. Se l’esperienza di bellezza è connessa a quella estetica, non può essere ricondotta alla sola visione e al piano sensibile, ma esige il coinvolgimento corporeo emozionale. Sono proprio l’assenza di distanza tra “impulso” e“azione” e “il concreto lavoro fisiologico della creazione” che interessano, nel momento in cui ci troviamo a cercare di comprendere cosa si possa intendere per bellezza. Se non ci consegniamo alla riduzione del concetto di bellezza alla cosmesi, all’esteriorità o alla classica isola che si staglia dallo sfondo configurando uno stato di eccezionalità, allora è nei sottili confini tra la creatività, l’esperienza estetica e l’immaginazione che dobbiamo provare a cercare. Certo, la creatività si propone come una distinzione specie-specifica di homo sapiens ed è strettamente connessa alla nostra competenza simbolica e al nostro linguaggio verbale articolato. Essa può essere definita come la capacità di comporre e ricomporre in modo almeno in parte originale i repertori disponibili del mondo. È dipendente dalla discontinuità e dalla elaborazione di break-down che interrompono la consuetudine e sospendono almeno temporaneamente i domini di senso. Sporgersi sulla soglia e intravedere quello che prima non c’era è un processo correlato all’esperienza di bellezza, così come è correlato alle esperienze di terrore. Tra bellezza e terrore vi è una forte tangenza ed entrambe hanno a che fare con l’esperienza estetica, se l’estetica non è ridotta a qualche canone dominante ma comunque provvisorio. L’estetica, infatti, riguarda la struttura che connette e le sensazioni (aisthanomai) che emergono da quelle connessioni in grado di indicare una ulteriorità di senso, di tendere oltre.

 

Tensione rinviante

L’esperienza estetica emerge, infatti, da una tensione rinviante che attiva la propensione all’eccedenza e alla trascendenza dei domini di senso vigenti, una tensione che rinvia ad altri sensi e ad altri significati che senza quella tensione non sarebbero emersi [cfr. U. Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; post-fazione di Vittorio Gallese]. L’esperienza di bellezza esige la complessa interdipendenza di queste dinamiche e non può essere confusa con l’esteriorità o con la riduzione a un canone dominante. Una comprensione della bellezza da un punto di vista evolutivo, richiede di collocarla nelle espressioni emergenti dell’evoluzione umana e di connetterla al rapporto tra corpo-cervello-mente e mondo. Richiede, inoltre, di collocarla nell’intersoggettività come fondamento e base dell’individuazione e dei comportamenti, essendo la bellezza, e l’emergenza estetica che la genera, un’esperienza sociale.

A partire da queste considerazioni la bellezza può essere riconosciuta come un’esperienza di risonanza particolarmente rilevante con gli altri e il mondo, tale da estendere il modello e il sentimento di sé. Così come un’esperienza di terrore genera una minorizzazione di quello stesso sentimento di sé.

Se si assume questa prospettiva evolutiva e neurofenomenologica nel tentativo di comprendere la bellezza, risulta difficile condividere le considerazioni che ritengono che “per ciò che riguarda la bellezza si è semplicemente spettatori, si è passivi, ci si trova in uno stato di stupore, di meraviglia”, come sostiene Umberto Galimberti, [in Il mistero della bellezza, Orthotes, Napoli-Salerno 2016].

Sia la prevalente attenzione alla visione che la riconduzione della bellezza a un canone richiedono una riconsiderazione della bellezza e della sua esperienza e funzione nella nostra vita. Un’eco del canone, connessa alla relatività dell’esperienza del bello la troviamo, con la consueta ironia, nel Dizionario filosofico di Voltaire:

“Chiedete a un rospo che cosa è la bellezza, il vero bello, il to kalòn. Vi risponderà che consiste nella sua femmina, coi suoi due begli occhioni rotondi che sporgono dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo e il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello consiste per lui nella pelle nera e oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che il bello è un paio di corna, quattro zampe a grinfia, e una coda”.

Ancora una volta dominano in queste note sarcastiche e straordinarie la visione e il canone. Come se fossimo solo occhi e avessimo un solo punto di vista. Siamo invece un corpo con un sistema sensori-motorio che esprime emozioni alla base della nostra cognizione. Siamo homo sapiens sapiens e disponiamo di competenza simbolica e linguaggio verbale, oltre che di un sistema corpo-cervello-mente neuroplastico che è alla base della nostra intersoggettività costitutiva. Quel sistema può diventare la base per esperienze di bellezza in grado di affrontare e ridurre l’impoverimento educativo.

 

Ugo Morelli è Direttore Scientifico di Di Bellezza Si Vive, esperto di scienze cognitive e docente di psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università degli Studi di Bergamo e di Scienze cognitive applicate presso l’Università Federico II di Napoli. Ugo Morelli ha ideato e diretto la Scuola per il governo del territorio e del paesaggio della Provincia Autonoma di Trento, dove è attualmente direttore del Master WNHM / World Natural Heritage Management, pensato per formare alla conoscenza e alla gestione dei Beni naturali iscritti nella lista del patrimonio mondiale UNESCO (Dolomiti e altri siti montani).

 

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