La Casa Famiglia vista da un’educatrice. Storie di vita vissuta.
di La Nuova Arca
In una casa famiglia c’è chi lavora, come gli operatori e le operatrici.
C’è chi vi abita, come mamme e bambini.
E c’è chi offre il proprio tempo libero per aiutare chi ha bisogno, come i volontari.
Un’educatrice professionale della cooperativa La Nuova Arca ci ha raccontato cosa vuol dire essere parte di una realtà solidale, dove accoglienza, attenzione ai più fragili e condivisione si respirano e si toccano con mano, ogni giorno.
Francesca lavora al fianco di mamme e bambini in situazione di vulnerabilità sociale, accolti presso la casa famiglia La Tenda di Abramo, ed è responsabile dei progetti di “semi-autonomia”, per il loro graduale reinserimento sociale dopo la casa famiglia.
Nell’intervista ci parla del suo lavoro, in questo difficile momento di emergenza sanitaria e sociale.
Perché hai scelto di lavorare in casa famiglia?
Perché mi piace. Mi ritengo fortunata perché fino ad ora ho sempre potuto fare il lavoro che mi piace davvero: questo!
Perché con le mamme e coi loro bambini?
Mi piace veder crescere i bambini, ascoltare e raccontare storie, ridere e consolare. Mi piace vivere giornate intere in una casa dove corrono, litigano, urlano, si arrabbiano, ridono, piangono, chiedono i piccoli e i grandi perché della vita.
Mi piace aver imparato da loro che accettare di non aver sempre tutte le risposte è una possibilità della vita.
Mi piace, soprattutto, veder (ri)fiorire le loro mamme, accorgermi dei loro piccoli traguardi, così come dei loro grandi e dolorosi “scivoloni”, accogliere le loro lacrime come le loro risate, camminarci accanto nella conquista di nuovi spazi, mentali e fisici, di sicurezza, autonomia, sogno di vita buona e migliore.
Oltre a loro poi, ci sono preziose colleghe e tanti volontari che ci supportano e condividono con noi la quotidianità.
E oggi come stai? Come stanno mamme e bimbi?
In un tempo come quello che stiamo vivendo, di “normalità sospesa”, di paure che paralizzano, di attesa di buone nuove, la scelta – perché di scelta per ciascuna di noi operatrici si tratta – di esserci, di continuare a garantire il servizio h 24, ci rende testimoni di presenza, di fattiva disponibilità, di operativo affetto e vicinanza. Tutte cose che i nuclei da noi accolti hanno potuto sperimentare molto poco nelle loro vite.
Allora si cerca di dar vita a giorni uno diverso dall’altro, con temi e frasi su cui riflettere, giochi, film, letture, attività motoria, nuove ricette in cucina, giardinaggio.
Non per esorcizzare, ma per riscoprire insieme la bellezza delle piccole cose.
Ogni vita ha uno sguardo, una storia da ascoltare, delle fragilità da custodire, nuove opportunità da intravedere e cogliere insieme.
C’è una grande, inimmaginabile bellezza nel tornare a casa affaticata, pensierosa, divertita, stimolata a far meglio o a cambiare strategie. La bellezza di sentirsi parte di un incontro che, in modi sempre diversi, apre nuovi orizzonti di vita.
Spero che questo tesoro non si perda o si disperda, che si possa continuare a prendersi cura delle donne e dei bambini come meritano, che ci si accorga che esistono, che resistono e che meritano di essere visti e protetti; perché il buon vivere di una buona società e di un grande Paese si misura, soprattutto, dal suo sguardo sulle fragilità silenziose.
Sono tanti gli operatori e le operatrici sociali che, come Francesca, continuano a lavorare senza sosta, anche in piena pandemia.
Per loro la distanza sociale è quasi impossibile da mantenere. Anzi, è proprio ciò che con il loro lavoro, sono chiamati ad abbattere.
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