Nascita degli interventi assistiti con gli animali: l’animale come co-terapeuta.
di Il Faro Società Cooperativa Sociale
Percorse le tappe principali della storia della relazione uomo-animale, ci sembra significativo citare i due pionieri della psicologia che hanno rilevato nell’animale una risorsa da coinvolgere all’interno dell’intervento terapeutico.
L’interesse che S. Freud mostrò per l’uso degli animali in terapia fu una grande sorpresa. Egli riteneva che gli animali avessero un «senso speciale» (www.medscape.com, Coren & Walker, 1998). Freud scoprì che la partecipazione del suo cane alla terapia a volte si dimostrava determinante. “Jo-fi, un Chow Chow, fu sua devota amica dal 1930 al 1937, anno in cui morì. Già il nome che Freud diede al suo cane era ricco di significati, in ebraico infatti Jo-fi significa “bene, va bene”” (Cavedon, 2018). Freud riteneva che il cane avesse un effetto “tranquillizzante”, soprattutto sui bambini e ammetteva che gli era d’aiuto nella valutazione dei pazienti. Il comportamento e la posizione fisica che Jo-fi mostrava alla presenza del paziente destò grande interesse in Freud.
Quando il cane si metteva vicino al paziente indicava la libertà di tensione dello stato mentale di lui, se invece si distendeva in mezzo alla stanza indicava un grande stato di tensione. Anche la fine della terapia era segnalata dal cane che si avvicinava alla porta grattando su di essa per poter uscire.
Freud si accorse che i suoi comportamenti non erano mai casuali e incominciò così anche ad interessarsi all’influenza che il cane suscitava ll’interno della stessa sessione terapeutica. “Senza farla diventare ragione di uno studio mirato, egli diventò pioniere anticipatore della terapia assistita con i cani. Per lui, infatti, le comunicazioni di Jo-fi rappresentavano un significativo contributo alla migliore comprensione del paziente.
Teneva in debita considerazione il suo apporto per condurre la sua azione terapeutica” (Cavedon, 2018).
È chiaro che fin dall’antichità gli animali da compagnia hanno sempre esercitato un importante ruolo affettivo e non di rado terapeutico.
Il primo a sottolineare l’aiuto terapeutico degli animali da compagnia è stato lo psichiatra infantile Boris Levinson, che nel 1961 pubblicò sulla rivista americana “Mental Hygiene” un articolo intitolato “The Dog as a Co-Therapist”. Lo psichiatra fu il primo a coniare il termine di Pet Therapy, o anche, Animal Assisted Therapy, Terapia Assistita con Animali. Con questo termine voleva far risaltare il fatto che gli animali sono capaci di interagire con noi in modo da aiutarci ad entrare in contatto con noi stessi, e insegnarci ad essere più responsabili e a raggiungere una certa serenità. L’autore, dopo attenti studi e ricerche di fonti, si sorprese di non trovare nessuna relazione sulla mediazione del cane come aiuto nella terapia con i bambini.
Levinson riferisce la sua prima esperienza dell’introduzione del cane in terapia quando nel 1953 un ragazzino che era stato curato per molto tempo senza successo gli era stato portato da un genitore disperato. Il bambino aveva una grave forma di autismo, per questo motivo Levinson esitò ad accettare il caso ma decise comunque di prenderlo in carico.
La fortuna volle che il bambino insieme ai suoi genitori arrivasse per sbaglio un’ora prima all’appuntamento stabilito e così Levinson li accolse subito nello studio dimenticandosi del proprio cane Jingles, che si trovava all’interno della stanza. Con grande stupore osservò che il bambino non mostrava alcuna paura del cane il quale si era ormai avvicinato, anzi cominciò a coccolarlo. Levinson decise di lasciarli soli per breve tempo, allo scadere del quale il bambino cominciò a diventare curioso e attento ai bisogni del cane ed espresse il desiderio di poter tornare a giocare con lui. “Il cane riusciva evidentemente a creare un aggancio e a sbloccare il bambino, aprendo un innovativo canale di comunicazione con il terapeuta” (Cavedon, 2018). Per varie sessioni terapeutiche consecutive il bambino sembrava interessato solamente a giocare con il cane, senza prestare attenzione alla presenza di un terzo, il terapeuta. Gradualmente il bambino incluse il terapeuta nel gioco. Si arrivò così a stabilire una buona relazione collaborativa e alla successiva riabilitazione del bambino.
Da quel momento Levinson usò il suo cane Jingles in modo selettivo con alcuni pazienti bambini.
“Immagino il disorientamento di Levinson che, consapevole del suo sapere, non si capacitava del fatto che il cane riuscisse a realizzare la magia di risultare decisamente più accattivante di lui agli occhi del bambino. Allo studioso va riconosciuto il grande merito di aver esplorato tale fortuita circostanza” (Cavedon, 2018).
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