Ma perché voi non date punizioni?
di comunicazione
“Oggi a scuola mi hanno dato una punizione, sono rimasto in classe anziché andare in giardino a giocare. Ma perché voi non date punizioni?”
M. ha partecipato al laboratorio per il rafforzamento delle competenze emotive e sociali 0-6 anni.
Valentina, operatrice del progetto TenerAmente ci ha raccontato la sua storia.
M. ha 5 anni, è un bambino curioso e con difficoltà a concentrarsi su un’attività per lungo tempo. Si muove continuamente, non riesce proprio a star fermo. Apre cassetti, scopre giochi, materiali, strumenti e in pochi minuti passa da una richiesta (ad esempio giocare con la palla) ad un’altra (dipingere).
È un bambino sorridente, cerca continuamente il contatto con i suoi coetanei, chiede spesso “vuoi diventare mio/a amico/a?” e ci resta davvero male se qualcuno gli risponde di no. È un fiume in piena ed il contatto con gli altri è qualcosa che ricerca positivamente ma spesso avviene in modo irruento ed insistente.
Non sono un’educatrice che taglia fuori il concetto di premio/punizione, ma sono estremamente convinta che ogni strumento e metodo debba essere utilizzato con cura, attenzione, senso critico, tenendo conto di tanti fattori (età del bambino, livello di sviluppo cognitivo, bisogni, contesto, obiettivi). Insomma, questi sono i miei punti di partenza.
“Non diamo punizioni perché crediamo che se qualcosa non va possiamo capirlo insieme, se siete tristi, se siete arrabbiati, se un giorno avete tanta energia da poter correre per due ore ed un giorno avete solo voglia di stendervi sul tappetone allora va bene perché l’importante è stare bene insieme e ascoltarci.”
M. è un bambino apparentemente distratto da tutto ma realmente attento ad ogni cosa.
Non ha fatto quella domanda semplicemente pensando alle punizioni che lui non aveva ricevuto ma osservando che, in alcuni momenti particolarmente difficili, a qualche bimbo/a non abbiamo dato “le punizioni” che lui invece si aspettava. Ricordo che proprio in uno di quei momenti si avvicinò, con aria infastidita, chiedendomi esplicitamente perché non punissi la bambina e io gli risposi che avremmo potuto provare prima ad ascoltarla, a comprendere come mai si stesse comportando in quel modo, se fosse arrabbiata, potevamo starle vicino. Lui mi guardò con scetticismo ma provò comunque ad avvicinarsi a lei chiedendole se fosse arrabbiata. Il tentativo non diede i risultati sperati. Ricevette per risposta una linguaccia. A quel punto M. si girò verso di me ed indispettito mi disse “hai visto?”. Gli risposi che aveva fatto un bel gesto ma che a volte può essere difficile spiegare ciò che si prova. Quel giorno la bimba coinvolta in questa vicenda aveva dentro davvero tanta rabbia ed io mi dedicai a lei affidando la conduzione delle attività alla collega. La bimba pian piano si calmò e quando fu del tutto rilassata, M. le si avvicinò, la guardò per qualche secondo e mi sorrise. È in quello sguardo e in quel sorriso che trovo il senso del mio lavoro. M. aveva osservato tutto ed aveva appena scoperto che poteva funzionare.
A fine attività venimmo a sapere che il papà della bimba era stato ricoverato d’urgenza in ospedale durante la notte e lei temeva che non sarebbe tornato a casa.
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