Agnese, Nikita e Kevin. Le testimonianze di tre Care Leavers
di Redazione Istituto Toniolo
Quelle di Agnese, Nikita e Kevin sono le tre testimonianze di esperti per esperienza, intervenuti durante il primo incontro del percorso formativo Occhi per vedere, cuore per sentire, rivolto ai social workers, sia pubblici che privati, per allargare la rete a tutela dell’infanzia e del sostegno della genitorialità fragile.
Durante il primo incontro, dal titolo Ti racconto la mia storia”. Le ESI e il percorso fuori famiglia dalla voce dei Care Leavers, i partecipanti hanno ascoltato le testimonianze di Agnese, Nikita e Kevin, che per un periodo sono cresciuti fuori dalla loro famiglia d’origine, in percorsi di affido o in comunità e che, compiuta la maggiore età, hanno intrapreso un percorso di autonomia.
Sono tre storie diverse , ma che hanno in comune l’esperienza infantile di aver vissuto a lungo invisibilità, abbandono, maltrattamento e violenza, e che, per crescere, hanno avuto bisogno del sostegno di adulti altri – genitori affidatari, educatori, assistenti sociali – che si prendessero cura di loro e li aiutassero a diventare maggiorenni in percorsi autonomi.
La storia di Agnese. Appena fuori dalla famiglia d’origine.Ciò che colpisce della storia di Agnese è la presenza, da sempre, di una rete affettiva intorno a lei, che ha attutito lo strappo inevitabile dell’allontanamento dai suoi genitori.
Per lei sono stati i legami prossimali della sua comunità di appartenenza ad accoglierla: in primo luogo, la famiglia della sua migliore amica, che le ha aperto la propria casa, ma senza dimenticare mai che le sue radici affondavano in quel prima, impastato di sofferenza, che non si può cancellare; poi “la comunità che cura“, usando le parole di Agnese, cioè quel tessuto di legami costruiti dentro l’istituzione scolastica (lo stesso contesto da cui lei avrebbe desiderato essere maggiormente ascoltata e vista).
Agnese ha invitato ogni professionista a contatto con l’infanzia a formarsi a tutto tondo e a imparare a tenere a mente che il pericolo può annidarsi tra le mura domestiche e che è necessario rendere più forte ed efficace la rete degli adulti a tutela di bambini e bambine. Agnese individua nella sua educatrice quella figura soccorrevole che ha saputo leggere i suoi segnali di aiuto; quell’adulto che più di ogni altro – più degli insegnanti e più dell’assistente sociale – ha intessuto con lei una relazione di confidenza e di intimità, e che. secondo lei, avrebbe dovuto essere coinvolta maggiormente nella rete che ha costruito il suo progetto di crescita e di autonomia.
La storia di Nikita. Capire quello che c’è dietro.
“Un bambino che esasperava le maestre”. “Un bambino a cui non era concesso realizzare i propri desideri”. “Un bambino che a scuola portava lividi e silenzi”. Un bambino di cui nessuno a lungo si è accorto, che “ha ingannato tanti adulti”, che non hanno avuto occhi per vedere e cuore per ascoltare.
Nella vita di Nikita, troppi professionisti non hanno saputo mettere insieme i pezzi, non hanno saputo vedere oltre e mettere in salvo quel bambino dagli occhi di ghiaccio. Nonostante l’incontro con “quella signora che non si è presentata come assistente sociale” e nonostante gli interventi dei Servizi Sociali, che hanno fatto pensare a quel bambino “finalmente qualcuno se n’è accorto!”, Nikita ancora oggi si chiede: “Perché è andato tutto avanti? Perché non è successo niente?”
Poiché non si è attivata per lui nessuna tutela, i problemi della sua famiglia si sono fatti sempre più grandi e insostenibili, finché è Nikita stesso che a sedici anni si allontana da solo dalla sua casa e chiede l’aiuto di un’assistente sociale in un’altra città. E oggi condivide con noi questi pensieri: “Se l’avessi fatto prima! Se avessi saputo che potevo farlo! Quante cose mi sarei risparmiato!“.
Per Nikita, la sua nuova assistente sociale è stato l’adulto soccorrevole che ha fatto la differenza: per la vicinanza umana, per la sua dolcezza, per l’onestà e la franchezza, per la cura anche quando è andata in maternità e l’ha accompagnato ad affidarsi ad un’altra assistente sociale. Queste attenzioni lo hanno fatto sentire finalmente in una ‘”bolla sicura”, dove poter piangere per aver trovato finalmente sollievo, nonostante le difficoltà.
Nikita invita ad un’altra riflessione, quella del diritto al recesso: ci ricorda che il Care Leaver può cambiare idea, di fronte ad una proposta del Servizio Sociale e che non si può costruire nessun progetto senza la partecipazione del ragazzo o della ragazza. che è protagonista attivo di ogni intervento, perché “funziona meglio” se il Care Leaver è motivato in prima persona a co-costruire su misura il suo cammino verso l’autonomia.
La storia di Kevin. L’ultimo ad essere allontanato.
Kevin apre la sua testimonianza con queste parole: “Oggi posso dire grazie alla mia assistente sociale. Undici anni fa non l’avrei detto, pensavo ce l’avesse con me”.
In questo incipit, c’è tutto il senso della dimensione temporale e della crescita
di un ragazzo fuori famiglia: si intuisce che solo la distanza tra quello strappo e la sua attuale condizione di affermazione e autonomia di sé, consente di riconoscere il valore dell’allontanamento come momento doloroso, che, però, permette di rinascere.Da bambino, ultimo dei fratelli ad essere stato allontanato dal suo nucleo, Kevin non riusciva a cogliere il significato di quell’azione di tutela della sua assistente sociale, per cui la rabbia era l’unica emozione in grado di dissipare la confusione ed il dolore; l’unica strada per l’inesprimibile incertezza di tutti i perché, che solo il tempo, la maturità e la sicurezza ricostruita hanno potuto restituire.
Le parole di Kevin ci ricordano che gli strappi tra il prima e il dopo l’allontamento possono essere leniti dal mantenimento di punti fermi, gli stessi riferimenti di quando si era nella famiglia d’origine : scuola, amici, sport… Anche se è faticoso per gli adulti affidatari lavorare sulla continuità dei legami, “si devono fare salti mortali”, perché per il bambino affidato hanno un valore di stabilità che lo aiuta a orientarsi nel nuovo assetto, lontano dalla propria famiglia.
Kevin ci ricorda che, quando professori o adulti non hanno nessuna professionalità in tema di infanzia maltrattata, è l’umanità della relazione che colma ogni mancanza formativa ed i legami possono alleggerire il peso della situazione di incertezza.
Questa storia sollecita l’attenzione sull’importanza delle tempistiche, poiché il cuore dei bambini batte ad un ritmo più veloce e il tempo che si resta in famiglie pregiudizievoli è il tempo del trauma che continua e della sicurezza che manca. Quella sicurezza che Kevin ha trovato nella sua famiglia affidataria, che oggi, da maggiorenne, sta diventando la sua famiglia adottiva: genitori di cuore che hanno saputo spesso ricoprire anche ruoli che sarebbero spettati agli assistenti sociali o agli educatori, come quando, per esempio, lui ha continuato a vedere i suoi genitori d’origine in un contesto non protetto che ha contribuito a confonderlo.
Kevin sollecita, infine, un altro stimolo: quanto sarebbe stato importante nella sua storia un’attenta sensibilizzazione che, a partire dalla scuola, permettesse di informare sull’affido e sull’adozione, spiegando le differenze e le opportunità, per non lasciarlo solo a gestire queste delicate informazioni con i suoi coetanei, spesso disorientati e spiazzati di fronte alla sua unicità?
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