Sette piani di Dino Buzzati riletto dagli alunni del Liceo Gioia
di giovaniconnessi
Questa rubrica del quotidiano Libertà di Piacenza“rilegge” alcuni dei racconti più belli dell’era più recente, dai classici dell’Ottocento ai contemporanei.
Senza nemmeno saperne il motivo, l’avvocato Giuseppe Corte – vi ricorda qualcuno? – viene ricoverato in clinica, un edificio moderno e tutto bianco, alto sette piani e con le imposte aperte ai piani alti, dove trovano spazio i degenti le cui condizioni di salute preoccupano meno, i “malati dilettanti” e i “quasi-sani”, e le imposte abbassate ai piani bassi, destinati a quelli più gravi: al primo piano “ci sono i moribondi, laggiù infatti i medici non hanno più niente da fare…c’è solo il medico che lavora”.
Nemmeno il tempo di ambientarsi nella sua stanza al settimo piano, che per Corte è già tempo di trasferirsi. Sembrerebbe trattarsi di una questione di cortesia; una donna con due figli – dai quali non si può certo separare – necessita proprio della sua stanza, e così a lui viene chiesto di spostarsi al sesto. È una questione assolutamente provvisoria, gli dicono: “Non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni!” La sua forma è “as-solu-ta-men-te leg-ge-ra”.
E invece, è solo il primo passo verso l’abisso. Restano vani, infatti, i suoi (disperati) tentativi di tornare al piano più alto; anzi, dopo una serie di rinvii e di mezze verità, per lui si spalancano le porte del quinto piano. Ma è solo una normalità, gli raccontano stavolta: è stato infatti deciso dalla direzione della clinica di suddividere a metà la popolazione del sesto e del quinto livello, e a lui appunto è toccato il più basso. Ma Corte dura poco anche lì. Una banale infezione lo costringe a una serie di cure con i raggi diagramma, per le quali dovrà abbassarsi ancora di livello.
“Basta!”, strilla lui. “Ne ho già abbastanza di scendere! Dovessi anche crepare, al quarto non ci vado!” I medici allora lo ricattano: se non accetterà il trasferimento, non verrà ammesso alle cure. Purtroppo per lui, l’eczema si allarga e inizia sul serio a dargli fastidio, e così deve cedere di nuovo. Anche al quarto piano, così come era già accaduto ai livelli più alti, Corte – pur non facendo mai domande esplicite sulla natura della sua malattia, quasi a volerla rifiutare o nascondere – riceve risposte più o meno evasive.
“Come va il processo distruttivo delle mie cellule?”
“Oh, ma che brutte parole! Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio sentire da lei discorsi simili”.
“Va bene”, obietta l’avvocato,
“ma così lei non mi ha risposto”.
“Il processo distruttivo delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso, minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato”.
Difatti il suo eczema alla gamba peggiora sempre più e lui, stanco di patimenti, ascolta il consiglio del Prof. Dati: al terzo piano le macchine erano più potenti e la cura avrebbe funzionato meglio.
L’atmosfera, di sotto, è insolitamente spensierata, quasi gaia: al suo arrivo Corte non se ne capacita; i pazienti gli sembrano sempre più gravi, infatti. È un’infermiera a spiegargliene il motivo: tutto il personale è in procinto di partire per un periodo di ferie di quindici giorni! Va da sé che l’intero reparto rimarrà chiuso…
“E i malati, come fate?”
“Siccome ce n’è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo”.
“Come? Riunite gli ammalati del terzo e del quarto?
“No, no, quelli del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso”.
Corte è pallido come un morto.
L’unica cosa che ottiene è un cartello sulla porta della propria stanza che dice “Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio”. Figuriamoci, lui si sente ancora un paziente da settimo piano…
E se invece lo aspettasse un’altra amarissima sorpresa? Come mai la stanza si sta facendo improvvisamente così buia?
Questo famoso racconto di Buzzati è stato pubblicato sulla rivista La Lettura nel 1937 e cinque anni dopo nell’antologia intitolata “I sette messaggeri”; oggi si può trovare in “Sessanta racconti” (prima edizione: 1958). Il testo che leggete qui sopra è, con le modifiche dettate da esigenze di spazio e di lettura, il risultato di un laboratorio svoltosi con la classe 3 Classico B (anno 2020-21) del Liceo Gioia, all’interno del progetto Giovani Connessi.
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