Lo Ius scholae gli italiani ce l’hanno avuto

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Quando ero piccolo andare a scuola per me era un’esperienza assolutamente interculturale.

Vedevo i miei compagni tutto l’anno, ma durante le vacanze rimanevo da solo perché partivano tutti per il Paese. Chi al nord, la maggior parte al sud, molti nelle aree interne, alcuni alle isole o in montagna raggiungevano le loro famiglie, si riunivano con gli altri parenti, rinsaldavano lingua, usi e legami per poi tornare a scuola pieni di storie e sapori, ricchi di una pluralità che a me, romano de Roma, mancava, tanto da inventarmi anche io un mio luogo d’elezione, per non rimanere monco di quell’appartenenza.
Quei viaggi, pure mitici e faticosissimi, rimanevano nei confini nazionali, perché noi sulla carta eravamo tutti italiani. A volte, addirittura, forzatamente italiani perché nel cuore ognuno aveva una sua terra, una sua origine distinta e distante che lo nutriva e caratterizzava e che a fatica la Scuola aiutava a rappresentare e condividere.

Sono queste le immagini che mi sono affiorate alla mente, pensando allo “Ius scholae” di cui molto si è parlato questa estate. Mi sono ritrovato piccolo, alle mie elementari e mi è venuto in mente questo flash della mia esperienza giovanile: gli “italiani” non lo erano, fino ancora agli anni sessanta, o almeno non tutti e non del tutto; eravamo una variegata accozzaglia di “trasmigratori” profughi, immigrati, spiantati, mossi per la penisola da flussi migratori interni che coinvolgevano fasce importantissime della popolazione; ci muovevamo per lavoro, per voglia di riscatto, per sfuggire alla fame, per desiderio di cambiare, per tutti i motivi che oggi non consideriamo sufficienti a giustificare come mai una persona decida di lasciare il suo, di Paese, e di cercare fortuna altrove.

Se penso a quei compagni, ai racconti che portavano, pieni della saggezza e delle superstizioni della vita contadina, ai dialetti che parlavano, così coloriti e sanguigni mi ritrovo trasportato nelle scuole di oggi, vitali e plurali grazie all’apporto di mondo che bambin@ e giovani di origine straniera nati o arrivati in Italia portano con sé. Ripenso al motto di D’Azeglio: “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani” e all’impresa epica che si diede alla scuola di tessere connessioni tra tutti i diversi popoli e mondi che costituivano quella nazione incompleta e mi viene lo sconforto per l’approccio vigliacco con cui cerchiamo invece, oggi, di fare sancire le differenze, di sottolineare le diversità, di mettere barriere all’accoglienza e ostacoli ai diritti.

L’Europa, ci dicono quotidianamente, si sta svuotando, invecchia, non ha né i numeri né le professionalità per garantire produttività e stato sociale, l’Italia in questo processo è all’avanguardia, se ci guardiamo tra noi ci accorgiamo di non avere investito nel nostro futuro collettivo per costruire ciascun@ il proprio benessere individuale. E invece di accogliere chi viene offrendogli accesso e cittadinanza, per tenere fede ai nostri ideali e sostenere i nostri stessi standard di convivenza, cerchiamo sudditanza, imponiamo precarietà, disegniamo colpevolezze e neghiamo un futuro degno ai bambin@ e ragazz@ che giocano, vivono e imparano con i nostri stessi, pochi, figli@.

Lo Ius scholae è un palliativo, sostituisce un più onesto e coraggioso Ius soli, ma ha il pregio di riconoscere una convivenza già in atto, una relazione già viva e vitale che registriamo in tutti i servizi territoriali, nell’azione di ponte che svolgiamo come Cemea insieme alle reti dell’educazione attiva. Quella che si è fatta strada nel gioco e nel destino comune tra compagni e compagne di banco, quella che noi possiamo solo negare per legge, ma non impedire nel cuore.

Vorrei poter riabbracciare i miei compagni di gioventù, ora che capisco che grande trasformazione stavano sopportando, ponti tra una famiglia in cui a volte si parlava un’altra lingua, emissari di gruppi sociali che li avevano “mandati in città” per guadagnare un riscatto e “campare” la famiglia tutta, ragazzi (le mie elementari erano ancora separate maschi e femmine) impegnati a tradurre la propria provenienza con il proprio presente. Con le loro differenze mi hanno insegnato a essere umano.

Claudio Tosi (Cemea del Mezzogiorno)

 

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