Child Safeguarding Policy: l’etica che tutela i/le minorenni. Conversazione con Rocco Briganti

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Se si cerca online la traduzione di “policy” la prima parola che viene proposta in italiano è “politica”. Seguono poi “linea di condotta”, “procedimento”, “metodo”, “sistema”. Ed è piuttosto con riferimento a queste accezioni che la parola compare nell’espressione “Child Safeguarding Policy”, anche se poi, cercandone la traduzione in italiano online, la versione proposta è “Politica di salvaguardia dei/lle minorenni”. Perché di fatto definire le linee di condotta, le procedure, i metodi con cui operare per la protezione dell’infanzia equivale alla definizione di una politica. E come qualsiasi politica, include definizioni, interventi, regole, procedure, divieti.

Rocco Briganti, direttore generale della cooperativa Specchio Magico, interviene sulla Child Protection Policy per il progetto Dream.È da qui che inizia la conversazione con Rocco Briganti, PhD in Scienze dell’educazione e laurea in filosofia “di cui sono particolarmente orgoglioso”, direttore generale di Specchio Magico, cooperativa sociale e Onlus lombarda che si occupa di prevenzione primaria dell’abuso e maltrattamento dei/lle minorenni e che nel tempo ha costruito una solida esperienza nella definizione e strutturazione di Child Safeguarding Policies.

Partendo dal lavoro fatto internamente, la cooperativa Specchio Magico ha affinato le proprie competenze nel campo della Child Safeguarding Policy grazie all’ingresso e alla partecipazione attiva nei due network internazionali più importanti per la protezione dei/lle minorenni: ISPCAN, International Society for Prevention of Child Abuse and Neglect, e Keeping Children Safe, quest’ultima riferimento principale a livello europeo per la tutela dei soggetti di minore età.

Specchio Magico è uno dei partner del progetto DREAM che, con la guida di Rocco Briganti, sta affrontando la revisione della Child Safeguarding Policy portata in dotazione al progetto da Artemisia. “Siamo particolarmente contenti di poter portare un contributo all’interno del progetto DREAM”, afferma Briganti, “collaborando con un capofila così prestigioso e competente come Artemisia”.

Qual è la tua definizione di Child Safeguarding Policy?

Definirei la Child Safeguarding Policy come un impegno di responsabilità, responsabilità etica in primis e responsabilità operativa, procedurale, poi, verso tutti gli/le utenti, in particolare i soggetti di minore età, con cui si ha a che fare in quanto operatori sociali. E anche verso i propri colleghi e colleghe, verso i e le dipendenti delle organizzazioni e più in generale verso tutto il reparto risorse umane. Infine un impegno di responsabilità anche verso la propria mission, come organizzazioni o enti che hanno scelto di lavorare su tematiche di grande delicatezza quali l’abuso e il maltrattamento nei confronti di chi è minorenne.

Chi si approccia a tematiche complesse come l’abuso sui minorenni, si confronta costantemente con quesiti e situazioni che hanno una rilevanza etica sia internamente che verso l’esterno.  Questa condizione spinge verso un’attenzione che non è solo sulla procedura in sé, ma sul valore e impegno etico a monte, che si traduce poi nella procedura, nella messa a terra di quei valori e impegni etici attraverso un sistema di regole che tutela contemporaneamente chi entra in contatto con l’organizzazione e usufruisce dei suoi servizi, e l’organizzazione stessa.

Come si costruisce una Child Safeguarding Policy?

Sono due essenzialmente le fasi di costruzione della Child Safeguarding Policy di una qualsiasi organizzazione che lavoro con i/le minorenni. La prima è quella del “self assessment”, ovvero di una autovalutazione, una ricognizione al suo interno che fa emergere la consapevolezza dell’organizzazione dei rischi e degli aspetti critici del proprio lavoro, vale a dire quelle attività che presentano maggiori criticità potenziali, che potrebbero verificarsi, e che dunque occorre saper affrontare e gestire.

La seconda fase è quella del “risk assessment”, ovvero più strettamente della valutazione del rischio, con l’analisi e la puntuale descrizione delle filiere attraverso cui si svolge il lavoro con le sue potenziali complicanze a cui rispondere.

Sono sostanzialmente quattro le macro-aree che la Child Safeguarding Policy deve affrontare:

  • quella dell’impegno etico, in cui vengono esplicitati i principi che orientano la costruzione della propria attivazione su soggetti di minore età in situazioni di maltrattamento;
  • quella delle procedure, in cui sono descritte le procedure che l’organizzazione attiva per il reclutamento del personale, per la segnalazione delle criticità, per la formazione, per la supervisione dei casi e dell’équipe, ecc.
  • quella relativa alle persone: i diversi livelli di intervento e quali figure professionali, con quali ruoli specifici, devono essere coinvolte; la definizione delle varie operatività e delle figure professionali di riferimento, e tutte le attività necessarie per far sì che tutti/e coloro che operano nell’organizzazione siano sempre aggiornati/e, informati/e e consapevoli;
  • infine la macro-area della responsabilità: quanto la policy risponde alla concretezza della mia azione, guida l’intervento professionale ed eventualmente orienta e modifica la cultura professionale.

Questo significa che la Child Safeguarding Policy deve essere un documento vivo, un riferimento costante degli interventi che si realizzano. Non serve a nulla avere una Child Safeguarding Policy solo perché questo oggi è richiesto dai donatori, e poi tenerla nel cassetto.

Chi deve essere coinvolto nella definizione della Child Safeguarding Policy?

Questo varia molto, a seconda delle organizzazioni. I contenuti della Child Safeguarding Policy possono anche essere definiti dall’alto, dal gruppo dirigente, che poi però deve calare questo strumento nella maniera più partecipata possibile all’interno del gruppo di lavoro.

Oppure si può procedere cominciando a codificare procedure e pratiche che già esistono nella prassi operativa dell’organizzazione, ma che non sono mai state consolidate attraverso una descrizione che ne faciliti l’apprendimento e la riproduzione da parte dei vari operatori, restando dunque vincolate alle competenze del singolo o della singola professionista. Codificare le procedure all’interno della Child Safeguarding Policy permette di uscire dalla “personalizzazione”, che è un limite presente in molte organizzazioni, e mettere le attività a disposizione di tutti.

Oppure, e può valere per le organizzazioni più grandi, quelle con una operatività già strutturata attraverso reti territoriali di intervento, si può partire dalla base sociale, coinvolgendo gli operatori dei servizi più complessi con cui già si interagisce. In questo caso l’ente che avvia il processo deve avere molto chiaro cosa sta chiedendo alle altre strutture coinvolte. E occorre porre molta attenzione nella descrizione delle procedure, perché tutti gli operatori della rete più vasta e che hanno a che fare con la parte più sensibile delle Child Safeguarding Policy, ovvero quella relativa alla gestione delle criticità, devono avere ben chiaro a quale dei diversi nodi della rete devono rivolgersi se incappano in casistiche di un certo tipo o in situazioni di rischio o di pregiudizio.

Qual è o dovrebbe essere l’impatto della Child Safeguarding Policy?

L’impatto ideale è un cambiamento della cultura professionale dell’ente nell’ottica e secondo i principi contenuti nella sua Child Safeguarding Policy.

Bisogna ricordare che nelle organizzazioni che si occupano di minorenni che hanno subito abusi o maltrattamenti c’è già un’allerta particolare su questo tipo di fenomeni. La Child Safeguarding Policy aiuta a sviluppare la capacità di gestirli in maniera più coerente e professionale, oltre a puntare a prevenirli da parte degli stessi operatori. Il fatto che ciascun operatore “mastichi” la stessa cultura professionale consente infatti di minimizzare i rischi interni, facendo sì che all’interno dell’organizzazione ci si possa confrontare sul tema dell’abuso in équipe con spazio, tempo, cultura e azioni condivise per affrontarlo.

Qual è la richiesta prioritaria che fa alle istituzioni, alla luce della sua esperienza nella costruzione di “politiche per la salvaguardia dei/lle minorenni”? 

La principale richiesta è una cosa abbastanza banale nella sua concezione, ma che non dobbiamo stancarci di continuare a sottolineare: investimenti su prevenzione e protezione, e non solo sull’emergenza. Oggi si investe soprattutto, e comprensibilmente, per affrontare le situazioni di emergenza. Ma così si continua a non fare abbastanza per evitare o almeno limitare le situazioni di emergenza, cosa che è possibile solo con adeguati investimenti che consentano di intervenire in maniera sistematica e continuativa nella prevenzione e nella protezione. Certamente occorre continuare a prendere in carico e gestire le situazioni di emergenza, sia chiaro: si tratta di ingrandire la coperta, non di tirarla da una parte lasciando scoperta l’altra.

 

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