Educare alla relazione madre-bambino. Intervista a Giorgia Olezzi

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Non esistono dati precisi sul numero di madri che a un certo punto della propria vita, per cause diverse, sono accolte in una comunità o una casa famiglia, all’interno di un “progetto mamma-bambini”. Sono donne in condizione di grave povertà, che si sono trovate a vivere per strada, oppure in situazioni di tossicodipendenza, di alcolismo, di disagio psichico. A volte sono donne che si sono sottratte a situazioni di violenza domestica. E anche le situazioni di maltrattamento e abuso all’infanzia possono talvolta prevedere l’accoglienza del nucleo madre-figlio/a in un progetto di questo tipo.

La maggior parte ha alle spalle vissuti traumatici, a volte già nella propria famiglia d’origine, e spesso fatica a interpretare e costruire il proprio ruolo genitoriale in maniera funzionale ad assicurare cura e benessere al/la proprio/a figlio/a e a se stessa.

Per comprendere meglio come funziona il supporto ai nuclei madre-bambino/a abbiamo intervistato Giorgia Olezzi, educatrice e pedagogista, responsabile delle Comunità mamme, bambinə e famiglie della cooperativa Open Group di Bologna, organizzazione con una articolata proposta di servizi e progetti innovativi a sostegno delle persone in situazione di fragilità. Olezzi è anche la referente per le regioni Toscana ed Emilia Romagna all’interno del CISMAI, il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia, e referente per l’Emilia Romagna all’interno del CNCA, il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza.

«La figura dell’educatrice o dell’educatore in queste strutture è specificamente prevista dalla normativa regionale dell’Emilia Romagna», esordisce Olezzi riferendosi al proprio percorso di studi. «Si tratta di educatrici che intervengono sulla dimensione relazionale, ovvero su tre livelli, andando a supportare contemporaneamente il/la bambino/a, la madre, nel suo ruolo genitoriale e nella sua dimensione personale in qualità di donna e persona in situazione di temporaneo disagio, ed infine la relazione tra i due. E se i nuclei madre-bambino/a sono prioritari, in una delle nostre strutture, Casa di Sara, stiamo anche sperimentando l’accoglienza di nuclei padre-figlio/a e di nuclei con entrambi i genitori insieme ai figli. Per questo preferisco usare il termine ‘genitore’ indicando il ruolo che andiamo a sostenere, avendo sempre come obiettivo il benessere dei bambini e delle bambine».

– Come si articola l’intervento?

Il focus dell’intervento è la relazione tra genitori e figli. L’educatrice accompagna dapprima il nucleo nel suo inserimento all’interno della comunità, nell’incontro con gli altri nuclei che vi sono già accolti. Si tratta di sostenere un percorso di inserimento in un nuovo contesto: soprattutto laddove ci sono stati degli episodi traumatici, può essere complesso instaurare relazioni spontanee.

Prima di tutto si costruisce insieme o si ristabilisce una routine giornaliera – che spesso deve essere formulata da zero. E si organizzano attività dentro e fuori casa, giochi, laboratori artistici, film da guardare insieme: si cerca cioè di rendere “educativamente valido” il tempo che le madri e i bambini trascorrono insieme, così da accompagnarle a sperimentare e stare in relazione in una modalità diversa da quella che avevano in precedenza con il proprio bimbo o bimba.

Poi c’è il sostegno nella relazione con l’esterno, ovvero con le famiglie d’origine e la rete parentale, con i servizi, la scuola.

Detto così sembra facile, ma in prevalenza non lo è, perché le famiglie portano con sé le difficoltà che hanno caratterizzato il loro quotidiano nel periodo precedente alla messa in protezione, percorsi traumatici di violenze subite, oppure sono state figlie maltrattate e abusate nel periodo precedente alla relazione di coppia, e hanno fatto esperienza di stili genitoriali in parte disfunzionali che tendono a replicare.

 – Qual è l’obiettivo del lavoro che madri e bambini/e fanno con le educatrici in comunità?

Il lavoro in comunità serve a riconoscere i meccanismi comportamentali interiorizzati, aiutare il genitore a comprendere come sta il/la bambino/a in relazione ai propri comportamenti ed alla loro storia familiare. Un lavoro che l’educatrice fa stando accanto e talvolta anche sostituendosi al genitore, se ci sono momenti di difficoltà. Si tratta comunque sempre di strategie condivise tra educatrici e genitore, tutti gli interventi educativi sono svolti insieme e sono integrati da colloqui per rileggere il percorso, facendo il punto settimanalmente.

Visto che le madri e i genitori portano con sé un bagaglio di vita molto carico, l’educatrice non si prende solo cura della relazione mamma-bimbo/a ma anche della donna. Incontriamo persone che portano con sé dei vissuti difficili, danneggiate nella propria autostima e di frequente sole nell’affrontare le proprie responsabilità di genitore, cerchiamo di accompagnarle nelle scelte che riguardano la vita di coppia, la famiglia d’origine, il lavoro e le sosteniamo nel poter desiderare una futuro diverso per sé ed i propri figli.

Per affrontare tali aspetti in maniera più approfondita è disponibile anche il supporto di una psicologa con la quale fare eventualmente un percorso individuale, uno spazio più personale che affianca quello del colloquio educativo.

– Quanto conta il gruppo in questo percorso e come funziona il lavoro nei gruppi?

Lavoro di gruppo in casa famiglia con persone sedute in cerchio per terra intorno a un cartellone
Le comunità di accoglienza sono luoghi ad alta complessità relazionale, in cui si condividono momenti di vita e dove le emozioni che circolano sono potenti. Possono essere momenti di gioia, in cui si festeggia la conclusione di un percorso di una famiglia, i compleanni, la Festa dell’agnello o una gita a Mirabilandia. Questi momenti per alcune costituiscono spesso esperienze che non si erano mai fatte prima. Poi ci sono momenti di tristezza, frustrazione, rabbia. E ci sono conflitti frequenti anche su cose pratiche, cose come la pulizia della dispensa o il mettere a posto gli attrezzi, che fanno emergere malesseri più profondi.

Gli incontri di gruppo periodici sono occasioni in cui si parla delle attività nel quotidiano per trovare modalità per parlarsi tutte insieme, senza usare l’aggressività, che è la modalità che la maggior parte delle persone ferite conosce. Bisogna tener conto del fatto che si tratta di un luogo sicuro, ma è pur sempre uno spazio in cui convivono tante persone con un vissuto di fragilità, che si confrontano con altri vissuti di fragilità, e questo può creare delle casse di risonanza rispetto ai propri problemi.

– Come si inseriscono in questo percorso le attività organizzate fuori dalla comunità?

Le attività esterne hanno un ruolo molto importante. Sono innanzitutto opportunità per arricchire il proprio bagaligio di esperienze ed alleggerire le giornate rispetto alla quotidianità della vita nella casa. Ad esempio organizziamo sempre un soggiorno al mare in Riviera in estate. È un momento per vivere la relazione madre-bambino/a in un contesto più leggero, un modo per fare attività piacevoli che sostengono molto la creazione di un clima positivo anche all’interno del gruppo, tra le famiglie ed anche tra le famiglie e le educatrici.

Ricordo per esempio una mamma con una bimba nata in Libia, durante il suo viaggio per raggiungere il Mediterraneo e poi imbarcarsi. È tornata per la prima volta al mare con noi, e all’inizio non ne voleva sapere di toccare l’acqua. Poi piano piano, accompagnata da tutte le altre, alla fine del soggiorno è arrivata a fare anche lei il bagno con la sua bambina. È stata una grande emozione per tutte.

– Quali sono le specificità del lavoro con donne che hanno subito violenza? 

Una mamma che arriva da noi è sempre una mamma coraggiosa. Le donne che noi accogliamo sono madri, genitori, che nonostante il bagaglio spesso molto doloroso che portano con sé hanno il coraggio di restare in comunità, un contesto molto complesso che richiede grande impegno. Sono donne che spesso sono sole, senza quelle risorse parentali e amicali che possono essere di supporto. E questo significa anche portare praticamente da sole tutto il peso della responsabilità genitoriale.

Una mamma che riesce a sottrarsi a una situazione di violenza ripetuta negli anni si trova di fatto senza un reddito, a condividere la casa con persone che non conosce e che a loro volta vengono da esperienze difficili, e a confrontarsi costantemente con educatrici che hanno anche un mandato di controllo, oltre a quello della cura e del sostegno, in particolare quando accogliamo genitori che mettono a rischio i propri bambini.

Questo è l’aspetto più critico, perché un genitore che sa che potrebbe perdere la custodia dei propri figli tende a difendersi, minimizzare i problemi e desidera mostrarsi competente in tutto, mentre dobbiamo cercare di far capir loro che non esistono genitori ‘perfetti’, nemmeno fuori dalla comunità, e che essere madri, o padri, non significare svolgere questo ruolo da soli, senza aiuti. Ma la dimensione del giudizio percepito è molto alta.

Al centro dei progetti c’è comunque sempre il genitore, qualsiasi sia stata la sua storia, che viene accolta cercando di capire insieme come costruire qualcosa di diverso per il futuro. Questa dimensione diventa rilevante in particolare quando la donna ha una autostima bassissima, come spesso è nei casi di violenza domestica, e non ha risorse finanziarie per garantire quello che veniva garantito ai bambini quando vivevano con il padre.

Emerge la dimensione conflittuale tra il “benessere dei/lle figli/e”, che era possibile al prezzo della sofferenza della madre, e il proprio benessere, che è possibile separandosi da quel padre che assicurava tuttavia una certa condizione di vita. Quella del genitore violento ma padre adeguato e affettuoso è però una trappola della relazione, sia per la donna che talvolta per il sistema. Resta il fatto che in sostanza i/le bambini/e vengono privati della figura genitoriale maschile.

Succede anche che le madri decidano di tornare con il padre dei loro figli. Se le condizioni lo consentono, cerchiamo di sostenere la donna nella propria scelta e costruire un progetto di ricongiungimento con il padre, prevedendo ad esempio un periodo di supporto alla convivenza con la famiglia ricostituita ed un sostegno all’uomo prima e durante. A volte, questo periodo serve alla donna per scegliere definitivamente di separarsi. Noi cerchiamo di sostenere e rafforzare la donna perchè possa continuare a sentirsi competente all’interno della relazione di coppia e in grado di fare delle scelte. Quando il genitore non si lascia avvicinare e chiude il dialogo con le operatrici, il rischio di esporre il/la bambino/a a dei rischi anche gravi, aumenta.

– Come cambia l’intervento quando sono i/le bambini/e ad aver subito maltrattamenti?

Bimba di spalle che disegna 
Oggi si pone grande attenzione alle violenze fisiche, molto meno ad altre forme di violenza che sono meno visibili, ma non meno impattanti: la violenza assistita, la violenza psicologica, la negligenza e trascuratezza, la privazione. I danni che fanno sono meno visibili di quelli provocati dalle botte, ma incidono profondamente sulla capacità di stare in relazione con l’altro in futuro e costruire una propria identità.

Noi supportiamo il genitore in funzione del benessere del/la proprio/a figlio/a. Anche un genitore negligente, trascurante, maltrattante, è un genitore con cui poter lavorare se si riesce a costruire una sorta di alleanza che permette al genitore di acquisire la consapevolezza dei danni che certi suoi agiti provocano ai/lle figli/e. Viceversa, se non si può evolvere rispetto a questo, il bambino va protetto in maniera più decisa, con intervento del tribunale.

Comunque non è mai una azione educativa e basta, ci vuole una rete di supporto. Possiamo pensare alle educatrici in comunità come un amplificatore, un megafono per la voce dei bambini ed i loro bisogni, osservare e ascoltare come stanno, interagire con loro, ascoltare i loro racconti e conoscere la loro storia è un’attività fondamentale in comunità che consente alle educatrici di promuovere i loro diritti sia con i genitori, per aumentare la loro consapevolezza e migliorare la relazione, sia verso il mondo adulto e l’intero sistema fuori, ad esempio richiedendo e attivando supporti sanitari e clinici se necessari.

Quali criticità ci sono a suo avviso nel sistema a supporto di madri e bambini/e?

Se da un lato stiamo recuperando il concetto per cui è importante sostenere famiglia e genitori, perché è importante che il/la bambino/a cresca nella propria famiglia, dall’altro si sta perdendo la capacità di valutare quando la separazione temporanea del nucleo diventa un supporto, come momento in cui gli adulti possano potersi prendere cura di sé, ricorrendo all’affido temporaneo o alla comunità per un periodo definito. Dividere la famiglia temporaneamente a livello fisico è diventato qualcosa considerato sempre e comunque negativamente, mentre non lo è.

Oggigiorno poi assistiamo a un grandissimo turn over, che rischia di farci tornare indietro rispetto a cose che pensavamo acquisite, ad esempio la presa in carico delle forme di violenza meno visibili di cui dicevo prima.

Il nostro è un sistema che sta in piedi perché ci sono professionisti/e che lo animano. Ma quello che facciamo è uno dei lavori meno retribuiti tra quelli che prevedono di avere come minimo la laurea. In generale, il sistema dei servizi che lavorano con persone che soffrono è poco valorizzato, direi proprio poco considerato, e ha condizioni di lavoro particolarmente gravose.

Si lavora su turni nell’arco delle 24 ore, 8 ore in comunità sono 8 ore di intensa relazione, con carichi emotivi che non si possono semplicemente ‘lasciare in ufficio’ quando si torna a casa. È dunque un lavoro logorante, oltre a essere sottopagato. Per questo tanti/e giovani oggi preferiscono tipologie di lavoro dove la vita personale viene maggiormente preservata.

È un lavoro che ha bisogno di cura anche degli operatori, cioè di risorse finanziarie e professionali adeguate per sostenerli attraverso formazione e supervisione, affinché la dimensione emotiva del carico di lavoro non porti progressivamente al burn out. Ma questo non sempre avviene.

Dall’altro lato ci sono le amministrazioni che chiedono sempre più servizi di altissima qualità ma a costi bassi, perché devono far fronte a un incremento delle richieste, con una domanda di assistenza in cui è aumentata anche la gravità delle situazioni che arrivano all’attenzione dei servizi sociali.

Il rischio è che si arrivi a un muro contro muro, da un lato gli operatori che lavorano sul campo, dall’altro le amministrazioni, in un sistema che dovrebbe vederci alleati. Mentre oggi assistiamo a un terzo settore oggetto di crescente controllo da parti di commissioni varie, mentre vengono svuotati quei tavoli – locali, regionali e nazionali – dove gli operatori possono avere una relazione diretta con gli altri enti e servizi, per esempio la magistratura minorile, diventata praticamente irraggiungibile.

Dovremmo essere un sistema che lavora insieme, e rischiamo di essere dei poli che si contrappongono. Dovremmo recuperare la dimensione di prossimità e collettività tra coloro che operano e il sistema più ampio, amministratori e politici, perché il benessere di bambini/e e famiglie è interesse comune ed un fatto che riguarda la società tutta.

 

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