Quando la comunità è una Zona protetta raccontata in TV

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C’è una Zona protetta che tutti e tutte dovremmo conoscere, soprattutto chi lavora con ragazzi e ragazze che – per ragioni diverse – hanno passato, o stanno passando, un periodo della propria vita fuori dalla famiglia, mentre gettano le basi di una vita adulta in autonomia.

Zona protetta è il titolo di una docuserie in 10 episodi andata in onda su Rai 3 a partire dal 7 luglio e disponibile su RaiPlay, co-prodotta da Rai Fiction insieme a Kon-Tiki Film, nata da una idea di Paola Pannicelli e costruita come un laboratorio di cinema del reale insieme a 5 giovani registi e registe: Giulia Cacchioni, Chiara Campara, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio e Pietro Porporati, che hanno intorno ai trent’anni, pochi di più dei/lle protogonisti/e che raccontano.

A coadiuvarli nella realizzazione sono stati i registi Daniele Vicari e Andrea Purgatori, rispettivamente direttore e docente di regia alla Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté, la produttrice Francesca Zanza, oltre che la stessa Pannicelli, sceneggiatrice di lunga esperienza che ha collaborato anche alle ultime tre stagioni della celebre serie Mare Fuori, e Andrea Cedrola, scrittore e sceneggiatore.

Ciascuna puntata mette a fuoco, senza mai scadere in toni voyeuristici o rivittimizzanti, la storia di un ragazzo o una ragazza e insieme racconta, con semplicità ma senza banalizzarlo, il prezioso lavoro degli/lle adulti/e che hanno scelto di fare del sostegno temporaneo agli/lle adolescenti con vite difficili il proprio lavoro: educatrici, operatrici di casa famiglia, psicologhe/i, educatori di strada.

La sigla del programma usa le parole di una di loro per mettere subito a fuoco il punto di vista adottato dalla serie: «La società si accorge di questi ragazzi nel momento in cui rompono le scatole […] Quando arrivano in comunità la parte più difficile è accompagnarli a reggere il dolore che gli hanno dato gli adulti».

Nella casa famiglia Il Girasole di Subiaco seguiamo le vicende di Vanessa, 19 anni, che con fatica riallaccia i rapporti con la sua famiglia Rom, il padre violento, la madre scomparsa o forse morta, i fratellini dati in adozione. E quella di Blessing, 17 anni, che scrive e canta in rime rap la propria vita, prelevata di forza dalla polizia dopo che ha raccontato allo sportello d’ascolto scolastico le violenze subite a casa dal patrigno, ora alle prese con un trasferimento deciso dal Tribunale.

Alla comunità Anania Oikos di Ancona incontriamo prima di tutto Mahmoud, 22 anni, egiziano, arrivato su un barcone, che torna in visita dopo essersi trasferito a Milano dove ora lavora in un ristorante come cuoco, sognando di aprire un locale tutto suo. E ricorda: «Volevo tutto subito, ero, sono, sempre agitato». E poi Khansaa, 19 anni, anche lei già fuori da Anania, nata in Marocco, rimasta a Casablanca con il padre tossicodipendente mentre la madre era venuta in Italia a lavorare, fino a un ricongiungimento difficile e conflittuale che alla fine l’ha portata in casa famiglia, dove è riuscita – non senza resistenze – a diventare «un’altra persona, sono maturata, con dei pensieri, degli obiettivi che prima non vedevo». Sua amica del cuore in casa famiglia è Nicoletta, oggi 23 anni, data in affido fin da quando aveva 3 anni, una madre alcoolista a cui è stata tolta la responsabilità genitoriale, un dolore che attraversa tutta la vita della ragazza. Ma proprio con il sostegno delle psicologhe di Anania Nicoletta riesce a ritrovare la madre e a trasformare «la rabbia in affetto, in compassione».

Andrea è invece una ragazza di 19 anni, vive ad Orte e da 7 anni è in casa famiglia, messa in protezione dopo aver assistito per anni alle violenze del padre sulla madre, fino a quando i maltrattamenti e gli abusi non investono anche lei. Il suo è il racconto di una consapevolezza preziosa, quella dei propri bisogni, anche quando significa lasciare chi per un certo periodo «è stata come una mamma per me». Un trasferimento chiesto al Tribunale, senza dirlo a nessuno, nel corso della lavorazione del documentario, «perché tutti i figli a un certo punto lasciano i genitori».

«La comunità è un luogo dove si lavora insieme, non un luogo isolato che chissà che lavoro fanno, un luogo che affianca, accoglie, ascolta, lavora, 24 ore su 24, va considerato come una risorsa della società, non come un luogo banale, è un luogo di grande pensiero».

Così Paola Sabocchia, responsabile psicologa e psicoterapeuta delle casa famiglia La Vela di Santa Severa e Caleidoscopio di Orte, introduce alla storia di Maria Sole, che con il suo trolley rosa ha attraversato una adolescenza di trasferimenti, ribellioni e fughe, accolta in varie case famiglia da quando aveva 6 anni, alla morte della madre tossicodipendente, e ora pronta a costruire insieme alla psicologa il suo progetto di autonomia.

Sharon e Marta sono due sorelle entrate insieme alla comunità La Vela di Santa Severa, che poi hanno preso due strade diverse. Sharon, 23 anni, ha iniziato l’università ed è tornata a La Vela da educatrice professionale, restando a vivere a Santa Severa. Marta, 25 anni, a un certo punto è invece tornata dai genitori a Torri in Sabina, una famiglia disfunzionale e maltrattante. Il film offre alle due sorelle l’occasione di ritrovarsi, sotto l’occhio discreto e partecipe della regista Giulia Cacchioni.

Diana e Pia in comunità sono diventate amiche, entrambe un’adolescenza al limite, in cui malcontento e ribellione si esprimevano vivendo in strada, rubando nei negozi – cose da mangiare, qualche capo di abbigliamento – per ritrovarsi poi con i compagni delle rispettive «baby gang, come dicono gli adulti». Fino a quando non incontrano Stefano Rossetti, educatore di strada del Forum Prevenzione, che gira per Bolzano con la battuta pronta della sua cultura napoletana e il sigaro in bocca, riesce a intercettarle e avviare con loro un percorso verso una vita diversa.

Così come fa con Youssef, che al bullismo e al razzismo di cui è fatto oggetto fin da bambino per le sue origini marocchine risponde con le risse, fino a quando non viene arrestato per un incontro di boxe clandestino. E sarà proprio nella palestra di boxe dove lo iscrive Rossetti, l’unico posto che può frequentare mentre è ai domiciliari, che inizia la sua rinascita.

Alla fine di ogni puntata si legge una dedica a Boez. In un articolo del magazine online Ciak, Paola Pannicelli, Andrea Cedrola, Andrea Porporati e Daniele Vicari spiegano che: «Zona Protetta rappresenta l’ideale prosecuzione della docu-serie del 2019 Boez. Andiamo via, prodotta da Rai Fiction e Stemal Entertainment, in cui sei ragazzi dal passato drammatico, usciti dal carcere o da una comunità, iniziano un percorso a piedi che li porterà da Roma a Santa Maria di Leuca in Puglia, assistiti da una guida escursionistica e da un’educatrice», scritta anch’essa da Paola Pannicelli.

In un contenuto video extra che accompagna Zona protetta, Daniele Vicari come sia stata proprio Pannicelli «che ci ha suggerito di realizzare questa miniserie e che conosceva molto bene questo mondo, un mondo sconosciuto ai più, perché ciascuno di noi si illude che il proprio figlio non finirà mai in un meccanismo di vita così difficile e non avrà mai bisogno di una Zona protetta».

La serie ha beneficiato della supervisione dello psicoanalista Tito Baldini per conto della Società Psicanalitica Italiana, «che gestisce una parte delle attività di queste strutture attraverso un approccio che con la parola psicanalisi sembrerebbe non avere nulla a che fare», spiega Daniele Vicari, «ma che ha a che fare con l’intuizione e la comprensione di che cos’è un essere umano e di quali sono i bisogni che sviluppa nella propria esistenza. Questo meccanismo di accompagnamento alla conoscenza di se stessi, che abbiamo visto all’opera nelle strutture che abbiamo raccontato in Zona protetta, è una grande chance non solo per i ragazzi, ma anche per le loro famiglie».

Per Petra Filistrucchi, coordinatrice del progetto DREAM, vice presidente di Artemisia e componente del consiglio direttivo del CISMAI, Coordinamento italiano dei servizi contro l’abuso e il maltrattamento all’infanzia, «la serie è utile a noi tutti/e, non solo a chi è attivo nel sociale, perché ci conduce con delicatezza ad avvicinarci, grazie ai ragazzi e alle ragazze protagonisti di ciascuna puntata, all’irriducibile complessità delle emozioni, dei pensieri, delle relazioni, della vita».

 

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