Quella distanza che riavvicina: intervista a Loriana Cavaleri

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Loriana Cavaleri, studi di sociologia e un solido curriculum nell’ambito della ricerca e progettazione di interventi sociali, nel 2005 ha fondato con altre colleghe l’associazione Send. L’associazione offre servizi di orientamento su tematiche connesse al mondo del lavoro e si caratterizza per una fortissima vocazione sociale protesa verso il benessere territoriale e comunitario. Nell’ambito del progetto Dappertutto, Send coordina l’azione sulla genitorialità e collabora ad altre attività, come la didattica partecipata e la formazione.

Con Dappertutto, Loriana gioca in casa, perché vive a poca distanza dal quartiere Tribunali-Castellammare, area di Palermo in cui è attivo il progetto. Inoltre, suo figlio frequenta la terza elementare nella scuola partner, l’Istituto Amari-Roncalli-Ferrara.

Loriana, mi puoi parlare dell’esperienza di Send nell’ambito del progetto Dappertutto? Avete avviato uno sportello di supporto alla comunità educante. Con quali obiettivi?

Sì, per comprendere meglio il ruolo di questo sportello, bisogna analizzarne l’evoluzione, facendo una differenza tra pre-covid e post-covid. L’emergenza ci ha portato a ripensare alcune attività rispetto a quanto era previsto dal progetto. All’interno dell’istituto Amari-Roncalli Ferrara avevamo avviato uno sportello di ascolto e sostegno scuola-territorio, la cui funzione era di supportare genitori e insegnanti nel loro ruolo educativo. Ci occupavamo anche di mediazione rispetto alle difficoltà che una comunità può incontrare nella costruzione di un percorso condiviso. Purtroppo, con l’avvio dell’emergenza e quindi con la chiusura del plesso, abbiamo dovuto interrompere l’attività. Al territorio offrivamo anche servizi di orientamento al lavoro, non solo informativo, ma anche esplorativo, quindi bilanci di competenze e riattivazione dei lavoratori. Avevamo attivato, come integrazione dei laboratori di orientamento, delle attività di sportello che si svolgevano all’interno dei locali di Send, anche perché noi siamo accreditati come ente di formazione e orientamento presso la Regione Siciliana e presso il Ministero. Ma anche questa attività è stata interrotta perché abbiamo dovuto chiudere l’ufficio. 

Sembrerebbe che tutto ciò sia avvenuto in tempi lunghissimi, invece si tratta di un cambiamento radicale intervenuto in poche settimane.

Sì, abbiamo rischiato di assistere allo spegnimento improvviso di attività progettate per anni. Di dover abbandonare il territorio proprio nel momento di maggiore difficoltà. Non è stato piacevole. Allora abbiamo dovuto fermarci e riflettere: che tipo di servizi potevamo offrire noi, considerando il sensibile e repentino cambiamento dei bisogni e del contesto? In passato la nostra attività di orientamento al lavoro si basava principalmente su indirizzi di politica attiva: ci prefiggevamo di riattivare le persone nel mercato del lavoro e di metterle in relazione con politiche attive esistenti, per esempio Garanzia giovani. Nella nuova situazione, invece, abbiamo capito che innanzitutto bisognava dare delle risposte a bisogni primari e cominciare a ragionare anche in termini di politiche passive, quindi di accesso a forme di assistenza. Abbiamo quindi convertito il nostro sportello di orientamento in uno sportello solidale telefonico, in connessione con le reti che si sono sviluppate in questi mesi nei territori. Principalmente con Cassa Solidale, che è una rete che comprende diversi soggetti, alcuni dei quali partner di Dappertutto.

Qual era la funzione dello sportello solidale?

Soprattutto quella di provare a dare risposta ai bisogni emersi, come i buoni alimentari e la mediazione per l’affitto. Un importante contributo è stato dato alle famiglie frequentanti l’Istituto per accedere alla didattica a distanza. Naturalmente moltissime famiglie in situazioni di fragilità economica e culturale non avevano gli strumenti per accedere a questa nuova forma di fare scuola. Non disponevano né di accessi ad internet né di dispositivi adeguati. Possedevano cellulari, ma è difficile usarli per seguire una lezione, in situazioni in cui ci sono molti bambini e poche stanze. Quindi quando la scuola ha emanato un bando per fornire agli studenti tablet e schede Sim in comodato d’uso per la connessione, l’abbiamo aiutata a contattare queste famiglie per supportarle nella compilazione dei documenti necessari per partecipare al bando. In seguito, le abbiamo coadiuvate per affrontare varie problematiche, soprattutto dal punto di vista informatico Poi sono emersi altri bisogni.  Ad esempio, sono arrivate richieste di supporto orientativo. E poi le persone finalmente si sono rese conto di quanto sia importante la scuola. Alcuni hanno manifestato il desiderio di riprendere a studiare per conseguire il diploma di terza media. Altre richieste di informazioni sono pervenute riguardo al reddito di emergenza.

Quindi rischiavate di rallentare le relazioni con la comunità e, invece, c’è stato un riavvicinamento

Io penso che questo aspetto non sia molto evidente. C’è una narrazione che parla molto della distanza, come se questa si fosse verificata adesso. Invece la distanza c’era già prima: tra scuola e territorio, tra genitori e scuola o tra famiglia e welfare. Non mi riferisco alla situazione di Palermo, parlo in generale. Per molte famiglie la scuola non era qualcosa su cui investire: esiste una povertà culturale oltre che materiale. Oggi si è verificata una forte sollecitazione a dovere capire come si connettono i figli, ad informarsi, a essere chiamati dalla scuola, dagli insegnanti, dai soggetti del terzo settore… Quindi la distanza ha in qualche modo riavvicinato. Si sono create nuove connessioni.
In questa fase la scuola è stata presente. La rete scuola-territorio non ha mai abbandonato le persone. Ha detto “ci siamo, nonostante le difficoltà”. Sia chiaro che la nostra non è una lettura rappresentativa di un fenomeno sociale. Stiamo solo dicendo che la nostra impressione è che siano arrivati anche segnali di avvicinamento, perché se ti trovi in un momento di grossa difficoltà, hai bisogno di soggetti che stanno accanto al tuo cuore. Te ne ricordi di più rispetto a quanto avvenga nella normalità: “la maestra mi ha chiamato”, “quelli di Send ci hanno portato il computer”, “ci hanno portato la spesa a casa”, “non eravamo soli, ma siamo stati aiutati da soggetti che non erano nostri parenti”, “ci sono persone che possiamo cercare, se abbiamo bisogno”. Quindi paradossalmente, in questo periodo in cui la narrazione prevalente è sulla distanza, la nostra percezione è che, invece, molte distanze si siano colmate.
 

Hai rilevato dunque un’esigenza formativa anche negli adulti.

Questa fase critica ha portato dai genitori a dire: “ma io a mio figlio che cosa riesco a garantire? Neanche un piatto di pasta. Neanche la Possibilità di connettersi. Gli altri bambini sono connessi e mio figlio non ne ha la possibilità”. Non hai idea di quante telefonate abbiamo ricevuto. Volevano assolutamente che i loro figli seguissero le lezioni della scuola, per quanto on line. In qualcuno è nata l’idea che bisogna attrezzarsi, prendere la terza media, provare a lavorare non in nero perché così si ha diritto alla cassa integrazione e quindi a una richiesta di orientamento al lavoro. In qualcuno questa breccia si è creata.

E queste relazioni si sono mantenute nella cosiddetta “seconda fase”? Continuate a essere interpellati?

Certo. Noi abbiamo ancora lo sportello solidale telefonico che fornisce risposte ai bisogni primari e percorsi di orientamento. Poi stiamo pensando a rilanciare le attività previste dal progetto Dappertutto. Uno fra tutti è il percorso di formazione per baby-sitter, naturalmente con i necessari protocolli di sicurezza, magari all’aperto e a distanza.

È importante fare ripartire questo corso adesso, perché molta gente è rimasta disoccupata. D’altra parte, lo smart working e la chiusura delle scuole hanno fatto aumentare la domanda. C’è anche la possibilità di accedere ai bonus e quindi di avere un contratto regolare. Non è solo una domanda di famiglie che vogliono la baby-sitter, ma non hanno i soldi per pagarla. Grazie agli incentivi statali, la riapertura del corso di baby-sitter potrebbe avere un risultato immediato e tangibile, anche in termini di occupabilità per le mamme.

Questo corso lo gestite voi?

Lo gestiamo noi con Ubuntu. I formatori sono due nostri esperti.

Quali richieste ti hanno particolarmente colpito?

Ci è capitato più volte di essere contattati direttamente dai bambini che volevano partecipare al bando emanato dalla scuola, per ottenere un tablet. Per esempio ci ha chiamato un bambino che frequenta la terza elementare, che era sempre solo a casa per varie ragioni. Noi lo abbiamo aiutato, ovviamente entro una catena in cui sono coinvolti anche i rappresentanti di classe. Se non c’è un reticolo di relazioni, tutto questo non è possibile.
Chiamano anche bambini stranieri, perché i loro genitori non parlano italiano.

C’è ancora questo fenomeno del bambino-interprete per conto dei genitori?

Sì, altroché. Anche perché le migrazioni continuano. Abbiamo anche gente che è arrivata l’altro ieri. I bambini apprendono l’italiano nel giro di un semestre. I genitori, soprattutto quelli che stanno a casa, non lo apprendono, sia che siano arrivati da tanto, sia che siano arrivati da poco.
Per questo ci è capitato più spesso di essere chiamati direttamente dai bambini.

I bambini sono capaci di auto-responsabilizzarsi. Hanno risorse.

I bambini tengono alla scuola. I bambini delle famiglie abbienti hanno già in casa un sacco di stimoli, relazioni e affetto. Ecco perché a scuola non vogliono andare. Quelli più poveri, invece, a scuola vogliono andare, specie se è un posto bello e capace di accoglierli come esseri umani.

Abbiamo parlato della famiglia, della scuola, ma che mi dici del territorio in cui operate, il quartiere Tribunali-Castellammare, e della comunità che ci vive? Secondo te qual è il patrimonio che questa comunità può offrire a voi operatori?

Il patrimonio consiste nel fatto che tu non ti pensi soggetto esterno, ma sei parte di questa comunità. Ci vivi, ci abiti, frequenti la scuola. Questa è la particolarità di quella rete: i soggetti non intervengono da operatori esterni per prendersi cura di altro, ma intervengono perché si prendo cura di un posto nel quale vivono. Noi operiamo in un territorio che sta sperimentando una grossa trasformazione, in cui c’è una componente demografica molto eterogenea tra nuovi ricchi che hanno ristrutturato i vecchi palazzi, poveri, nuovi poveri immigrati e precari della conoscenza come tutti noi che lavoriamo nel terzo settore. C’è tutta questa diversità che convive. Si può stare insieme dotandosi di infrastrutture sociali, di strutture di mediazione e rendendo il territorio un posto in cui è bello vivere per tutti. Per esempio, i giochi di piazza Magione forniscono occasioni concrete per stare insieme, confrontarsi tra genitori, condividere uno spazio e quindi anche le regole di quello spazio, e innescare meccanismi di solidarietà. 

Al di là della rete sociale e delle istituzioni, come sono i rapporti di convivenza, dato che tu vivi là vicino?

I rapporti di convivenza sono rapporti che si costruiscono giorno dopo giorno. La mia esperienza mi dice che c’è moltissima solidarietà. Ma è la scuola che è importantissima, perché investe sulla solidarietà ancora prima dell’inserimento e dell’integrazione, che ne sono mere conseguenze. Investire sulle reti paritarie, sull’accesso ai diritti per tutti, sulla dignità di tutti, su luoghi di partecipazione in cui ci si può confrontare, sulla mediazione, è la precondizione che ti garantisce e rende possibile la convivenza positiva.

Puoi raccontarmi un’esperienza significativa che hai vissuto durante il progetto?

Il corso pedibus che abbiamo organizzato l’anno scorso. Un pedibus è un autobus che non circola su ruote, ma su piedi. È un’esperienza fantastica, che si è diffusa in tutta Italia. I bambini vengono accompagnati da casa a scuola da adulti, all’interno di un percorso specifico, con delle fermate predefinite. È un tipo di mobilità lenta ed ecologica, che con la pedonalizzazione di molte aree del centro storico diventa ancora più facile, perché i bambini possono andare a piedi da casa a scuola o da scuola a un altro territorio, senza rischiare di essere investiti. È una tecnica, quella dell’accompagnamento pedibus, che si basa sull’organizzazione delle file con una corda a cui si tengono i bambini. Sono previsti canti e attività per tenere la fila ordinata e concentrata durante il tragitto. Il progetto si coniuga benissimo con l’idea di scuola diffusa: la scuola non è soltanto quel determinato edificio, ma si possono individuare altri luoghi di apprendimento in nuovi spazi della città, più ricchi dal punto di vista artistico e culturale.

Riguardo al pedibus abbiamo organizzato un corso formando un gruppetto di genitori sulla mappatura del territorio, sull’individuazione di percorsi didattici e quindi sull’accompagnamento dei bambini attraverso questi luoghi.
È stato un percorso didattico bellissimo, tenuto da professionisti speciali, tanto che questo gruppetto di genitori ha deciso di fondare un’associazione di pedibus. È uno spin-off del progetto. Stanno scrivendo lo statuto, noi li aiutiamo. Hanno pensato che questo può diventare anche un servizio da offrire, e quindi anche un lavoro. Magari quando ci sarà la ripartenza, a settembre, questi pedibus potranno svolgere un ruolo centrale, specie se si riuscirà a fare scuola così come auspichiamo: non metà dei bambini in classe e metà che li guardano dal computer, ma pensando ad altre aule in altri luoghi del territorio: il museo, la ludoteca…

Sarebbero appunto i pedibus ad accompagnare i bambini da un’aula all’altra, non più all’interno dello stesso plesso ma all’interno di un intero territorio.

 

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