Il progetto Base Camp e la personalizzazione educativa e didattica
di Base Camp - Presidi Educativi Territoriali
Intervento di Michelangelo Pecoraro al Convegno “Gioventù Sognata – Adolescenze contemporanee e disuguaglianze” del 29 novembre 2024 a Palermo
Mi chiamo Michelangelo Pecoraro. Ho 38 anni e ho iniziato a insegnare più o meno regolarmente quando ne avevo 18. Mi sono pagato gli studi universitari impartendo quelle che all’epoca chiamavo “ripetizioni”. All’inizio, come molte altre persone, lo vedevo come un lavoretto. Qualcosa che avrei fatto per un po’ di tempo, per pagarmi i libri e l’iscrizione all’università. Dopo la laurea, però, ho proseguito. Mi sono accorto che studiare insieme alle persone mi piaceva sempre di più. Forse anche per i miei nonni: mia nonna, che ha insegnato italiano e latino per gran parte della sua vita in diverse scuole superiori di Roma, e mio nonno, che quando ero piccolo, come se fossero delle fiabe, mi raccontava le strategie militari di Scipione e Annibale nella seconda guerra punica.
Così, dopo la laurea, ho contribuito a fondare Laudes, un’associazione specializzata proprio nel sostegno allo studio e nella personalizzazione educativa e didattica. Questo mi ha permesso, col passare degli anni, di trovarmi nelle più svariate situazioni di insegnamento e apprendimento. Ho sempre trovato stimolante curiosare negli infiniti meandri delle possibilità di vita umane, quindi ne ho approfittato per lavorare in baracche e in palazzi letteralmente principeschi, in scuole e in ospedali, in università e per strada, con ragazzi e ragazze molto giovani, professionisti adulti e persone anziane. Ho insegnato per lavoro, per passione, per curiosità, per volontariato, per aiutare degli amici e delle amiche in difficoltà e anche per gioco.
Oltre alla mia attività come insegnante e educatore, quindi “nella” cosa, ho lavorato anche “intorno” alla cosa, supervisionando e coordinando per più di dieci anni il lavoro di oltre duecento insegnanti, educatrici e educatori, sia all’interno di Laudes che in altri contesti; ho partecipato a progetti di contrasto alla povertà educativa, ho progettato e realizzato attività formative rivolte sia a studenti che a docenti di scuole di vario ordine e grado. Finora, comunque, il mio personale fiore all’occhiello è senza ombra di dubbio il progetto Base Camp, attivo in territori complicati di quattro importanti città italiane. Grazie a questo progetto, nonché al mio lavoro quotidiano in Laudes, ho conosciuto numerose scuole, studenti e docenti, famiglie e situazioni molto diverse, alcune meravigliose, altre tragiche.
Passando attraverso le esperienze che vi ho elencato, ho cercato di approfondire e comprendere che cosa volesse dire “personalizzare” l’educazione e la didattica. Ed è quello che proverò a spiegare ora.
Voglio iniziare sgombrando il campo da un fraintendimento, più o meno malizioso: personalizzare le attività educative e didattiche non vuol dire affatto, come alcuni sostengono, “andare troppo incontro agli studenti”, o “abbassare” la famigerata “asticella”. Vuol dire, invece, l’esatto opposto. Ed è proprio come sembra: è un lavoro tosto, faticoso. Lo è per chi studia, e lo è per chi insegna e per chi educa. E non si tratta nemmeno di una “pedagogia dei talenti” che si concentri esclusivamente sulle capacità e sulle conoscenze già presenti nella persona con cui si studia. Non si tratta, insomma, di rinchiudersi nel proprio orticello, come gli amici di Epicuro. È, invece, e deve essere, un modo per consentire alla persona di aprirsi al mondo con maggiore fiducia in sé e consapevolezza di sé.
Si tratta, in pratica, di provocare ciascuna persona in modo sempre più mirato, sempre più esatto. Provocare è un verbo che di questi tempi viene visto con sospetto. Però, se guardiamo alla sua etimologia, possiamo riflettere su quanto questa parola sia in sintonia con il nostro lavoro: vuol dire “chiamare”, “stimolare”, “eccitare”, “sfidare”. Quello che facciamo è cercare di comprendere, incontro dopo incontro, appuntamento dopo appuntamento, ora dopo ora, quali siano le “zone di sviluppo prossimali” per la persona che abbiamo di fronte; manipolarli, questi limiti mobili, giocarci, dialogare amichevolmente e meta-cognitivamente con il ragazzo o la ragazza che è seduta al nostro fianco e capire insieme cosa si può arrivare a capire, capire insieme su quali ambiti e competenze ci interessa lavorare e perché, quali difficoltà vogliamo provare a superare subito e su quali, magari, vogliamo prenderci un po’ più di tempo, per fare le cose con calma e seguire il naturale ritmo di apprendimento di ciascuno. In pratica, si tratta, per parafrasare il celebre verso di Danilo Dolci, di “sognarci insieme” e di provare a seguire e a perseguire i sogni che facciamo.
È un lavoro che può dare e che dà ottimi frutti, ve lo assicuro. E spero che emerga anche da quello che ci diranno i colleghi e le colleghe che si sono occupati in questi anni di monitorare questo enorme progetto. E, come tutti i lavori di questo tipo, è un lavoro che richiede tempo e dedizione. Tempo, dedizione e una squadra di professionisti aggiornati e in costante dialogo tra loro, di insegnanti delle diverse aree, la scientifica, l’umanistica, le lingue, con l’aggiunta di persone che abbiano competenze in ambito pedagogico, didattico, psicologico, sportivo, culturale, artistico. Non è semplice riuscire a raggiungere delle condizioni del genere: ci vuole una buona capacità di gestire i complicati aspetti economici e organizzativi, ci vuole la capacità di gestire il dialogo con tutte le parti della comunità educante, quindi soprattutto con la scuola e con la famiglia, oltre che con gli e le studenti; ci vogliono una giusta quantità di fondi, perché fare le cose per bene ha un costo. Non credo, però, che questo debba spaventarci: sono altre, secondo me, le cose spaventose, di questi tempi. E se uno Stato ricco come il nostro ha sempre più soldi da spendere in armamenti, io davvero mi chiedo come mai non si possano spendere un po’ più di soldi nell’arma più potente che l’umanità abbia inventato: l’educazione.
Nei Base Camp, per cinque giorni a settimana, per quattro ore a pomeriggio, nelle scuole e in dialogo con le scuole e con le famiglie, noi personalizziamo l’educazione e la didattica. E ci piacerebbe molto continuare a farlo, vorremmo continuare a farlo in più scuole possibile, più a lungo possibile. Insieme alle scuole. In un rapporto di complementarità con le scuole e con il necessario lavoro sul gruppo classe che avviene nelle scuole al mattino.
In cosa consiste, in poche parole, questo processo di personalizzazione?
Potrei, ora, mettermi qui a sciorinarvi i casi più estremi, le situazioni più incredibili con cui siamo entrati in contatto, in relazione, e il come ci siamo mossi, caso per caso. Ma non lo farò, non ora. Non lo farò un po’ perché il tempo che ho a disposizione è poco e un po’ perché siamo in un periodo in cui sembra che tutto ciò di cui si possa parlare e discutere a livello pubblico sia triste, oscuro, nero. Non è questo il senso che abbiamo voluto imprimere a questa occasione di incontro e di confronto.
Ma noi lo sappiamo, sappiamo quali sono i tanti motivi per cui i giovani e le giovani hanno difficoltà ad apprendere serenamente. Ho circa 450 pagine di diario di progetto in cui vengono seguite, in modo abbastanza capillare, situazioni davvero stupefacenti e drammatiche. Può trattarsi, e spesso si tratta, di povertà; povertà materiale che diventa, molto facilmente, povertà educativa; può essere la guerra, e le sue conseguenze dirette e indirette; può essere l’assenteismo delle figure genitoriali o, all’opposto, l’eccessiva manipolazione del percorso di vita del figlio; può essere un ambiente ostile e predatorio in cui viene fatta vivere una figlia; può essere il razzismo, il classismo, l’abilismo, possono essere forme di discriminazione variegate, sfumate e perennemente cangianti. Abbiamo incontrato docenti che in classe si rifiutano di chiamare con i loro nomi i ragazzi e le ragazze e li chiamano “straniero 1”, “straniero 2”, “frocetto”, e via così. Conosciamo molte delle difficoltà che possono trovarsi sul percorso di un ragazzo e di una ragazza. Ma conosciamo anche quali sono le tecniche per tentare di fare fronte a queste difficoltà. Conosciamo tecniche diverse, che si possono adattare alla persona specifica che abbiamo davanti: ai suoi punti di forza e di debolezza, alle sue passioni, ai suoi interessi, ai suoi limiti, ai suoi desideri, alle sue necessità psicofisiche e alle sue voglie contingenti. E tutto ciò si gioca, e questo è fondamentale, attraverso una relazione. E proprio su questa ci concentriamo, soprattutto nel corso dei primi incontri.
La relazione, l’ascolto, l’attenzione posta nello stare insieme, qui, in questo momento, io e te.
Il mondo dell’educazione, come molti altri ambiti, è fin troppo diviso e frammentario. Ieri, sempre qui a Palermo, per esempio, c’era un bel convegno su Danilo Dolci, con oratori molto interessanti. Sono riuscito a seguirne la discussione della mattina, anche se purtroppo non i laboratori del pomeriggio. Tra le belle cose di cui si è parlato ieri, prendendo spunto dal lavoro di quel grande educatore che proprio in questi territori ha svolto gran parte della propria opera, c’era anche il valore del dialogo maieutico come forma di apprendimento condiviso, il valore dell’ascolto degli studenti non solo per capire come educare o insegnare meglio, ma anche per capire cosa imparare da loro e come farlo.
Il primo ostacolo da affrontare sulla via per una buona personalizzazione è l’arroganza di credere di sapere sempre cosa è giusto per l’altro. Credere che perché questa tecnica, o questo approccio, hanno funzionato benissimo per le novantanove persone prima di te, funzioneranno allo stesso modo anche con te. Credere che, poiché noi abbiamo appreso per bene le cose in un certo modo, le persone a cui insegniamo debbano apprendere le cose nello stesso modo. Disinteressarsi di cosa siano gli stili cognitivi, cioè le diverse “corsie preferenziali” che le diverse persone hanno di apprendere, pensare che il proprio lavoro sia “insegnare questa cosa” e il lavoro degli studenti sia quello di “imparare la cosa che io insegno”. E a me dispiace molto che i discorsi di pedagogisti come Biesta, pure utili come spunti di riflessione e, appunto, come provocazioni intellettuali e pedagogiche, vengano invece branditi come clave e usati quasi come manifesti da quei docenti che scelgono di non porsi dubbi sul proprio operato; da quei docenti che, vedendo minacciata la propria autorità, si barricano dietro al loro ruolo di funzionari pubblici e impediscono alle proprie classi di diventare davvero delle comunità di apprendimento e di pratiche.
Sappiamo cosa c’è bisogno di dare ai ragazzi e alle ragazze: bisogna ascoltarli e ascoltarle; dobbiamo dargli il giusto tempo, il giusto spazio, il giusto contesto. Bisogna stare insieme a loro, camminare al loro fianco, tuttalpiù spronandoli di tanto in tanto. Bisogna cercare di essere, per loro, degli “adulti significativi”. Devono guardarci e vedere in noi delle persone adulte che cercano di aiutare delle persone più giovani a crescere, a imparare, a scoprire insieme cosa si vuole fare della nostra vita. Ogni ragazzo e ogni ragazza hanno diritto a qualcuno che faccia questo per loro. Ogni ragazza e ogni ragazzo hanno diritto a poter frequentare una scuola e ad avere una persona adulta che dedichi del tempo ad ascoltarli con attenzione, che dialoghi con loro e che, se è necessario, stia al loro fianco per superare le difficoltà del momento, che insista affinché i sogni che si fanno insieme non vengano dimenticati.
Grazie.