Una giustizia che ristora. Intervista al professor Gian Luigi Lepri

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Le sessioni di formazione del progetto Astrolabio si sono concluse. Dopo l’estate verrà il momento della fase operativa, quella pratica. In questo luglio rovente tracciamo un primo bilancio insieme a Gian Luigi Lepri, psicologo e coordinatore del team di giustizia riparativa presso l’Università di Sassari, di cui fanno parte anche Ernesto Lodi, Maria Luisa Scarpa e la responsabile scientifica Patrizia Patrizi. Ovvero il corpo docente che negli scorsi mesi si è occupato della formazione rivolta agli operatori di Astrolabio.

In inglese si chiama restorative justice. In italiano il concetto viene tradotto con un’altra espressione, che però al professor Lepri non convince fino in fondo: giustizia riparativa. “Certi danni sono impossibili da riparare. Il modello a cui facciamo riferimento riguarda più l’idea di ristoro. Come nel kintsugi giapponese, l’arte di aggiustare i vasi rotti impreziosendoli con polvere d’oro. Le cicatrici si vedono, si devono vedere, ma in qualche modo il vaso ne esce anche più bello”.

La prima parte della formazione ha ruotato intorno agli aspetti teorici della restorative justice. Che, spiega Lepri, non deve essere considerata come un’alternativa al percorso penale. “Semmai gli si affianca. I procedimenti penali devono fare il proprio corso. Ma tutte le ricerche dimostrano che spesso le persone coinvolte in un reato, tanto chi lo subisce quanto chi lo agisce, alla fine dei processi manifestano un’insoddisfazione. Manca sempre qualcosa. Con la restorative justice si procede a una rilettura relazionale dell’accaduto. Insistere sulle relazioni è fondamentale”.

Il modello può essere immaginato come un triangolo. “Al centro rimane il danno. Ai tre vertici troviamo i soggetti di riferimento. Nel primo c’è chi ha agito il danno e il sistema di relazioni che gli sta intorno. Nel secondo c’è chi ha subito il danno con il suo, di sistema. Infine c’è la comunità. È molto importante contestualizzare il danno nel luogo in cui è avvenuto. Anche persone appartenenti alla comunità possono prendere parte ai processi di restorative justice”.

Esistono molti esempi di restorative justice. “In Italia quello più diffuso è la mediazione in ambito penale tra autore e vittima. Durante la formazione è emersa spesso un’obiezione diffusa: non sarà un approccio buonista? Non andrà bene solo per certi reati o danni minori? Noi pensiamo di no. Può funzionare anche in caso di un danno come l’omicidio. Perché riguarda un modo nuovo di concepire le relazioni ed elaborare le esperienze. Alle vittime e alle loro famiglie può fare molto bene provare a rispondere a certe domande, innanzitutto: perché proprio a me? Perché proprio questo, e in quel preciso momento? Spesso si ha il bisogno di sapere che l’altro non lo farà più, per esempio. In questo modo si ridanno dignità e forza a tutti coloro che partecipano, a chi ha subito il danno e a chi lo ha agito”.

Altra peculiarità dei progetti di restorative justice è che la partecipazione è volontaria. Non ci sono benefici per gli autori che accettano di partecipare. “Si tratta di educare a un tipo di risposta che non sia punitiva”, spiega Lepri, “e questo per esempio vale in tutti i contesti in cui possono emergere conflittualità, dalla scuola al mondo del lavoro”.

La seconda parte della formazione ha riguardato un gruppo più piccolo, insistendo sul modo in cui questi modelli teorici possono essere messi in pratica. “Lo abbiamo fatto anche con l’ausilio di esempi concreti, o per esempio di un film come A conversation, in cui si simula un caso di scuola. O anche parlando del libro della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie Il pericolo di un’unica storia, in cui l’autrice mette in guardia dai rischi delle storie singole. Quelle di tutti i soggetti coinvolti. L’esperienza individuale spesso ci porta a distorcere i significati. Il pregiudizio, dice Adichie, non è falso: è incompleto. La percezione individuale senza contestualizzazione può essere fuorviante. Noi pensiamo che la verità possa emergere dal dialogo. La verità attraverso il dialogo: questo è uno dei nostri valori fondanti. Gli altri sono la solidarietà, la responsabilità, l’accountabilty, si direbbe in inglese: l’importanza di rendere conto delle proprie azioni”.

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