Il mondo in “ino” del carcere: quando il genitore diventa bambino

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Il carcere di Santa Maria Capua Vetere dove hanno sede le attività del progetto Altrove - Non è la mia pena

Uno dei paradossi più lampanti del carcere è che disidentificando il detenuto, lo spogli di tutte le sue responsabilità. Ne era certo Goffman già nel 1968 quando teorizzava questa “spoliazione”, per condurlo sulla strada di ritorno all’infanzia, impotente ed incapace di fare scelte da persona adulta. È come se, una volta varcata la soglia del carcere, l’uomo, la donna, ritornassero un po’ bambini e perdessero la responsabilità del loro ruolo nel mondo, anche quello di essere padre e madre. Il progetto Altrove – Non è la mia pena, si propone di ragionare proprio su questi temi con esperti del settore di vario genere: nel team ci sono psicologi, educatori, operatori del carcere con cui si vuole riportare al centro la persona, ricostruire e riqualificare il ruolo del genitore detenuto. “Il progetto mira a ricucire le relazioni familiari che sono andate perse”, spiega Sara Romito, psicologa, dell’associazione Officine Periferiche di Napoli, responsabile del progetto Altrove – Non è la mia pena, le cui azioni si svolgono nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Sara Romito da anni lavora in molti carceri, conosce bene quel mondo chiuso in quattro mura che però riesce ad arrivare molto più lontano in termini di effetti. Ben oltre quelle mura spesse. E che colpisce spesso soprattutto la famiglia, i bambini e i ragazzi, quei figli che “vivono una pena sussidiaria – spiega Sara Romito – che non è data loro da nessuna sentenza. Eppure è una condanna che vive a pieno, per la famiglia e i minori. Il carcere non è come un proiettile che colpisce precisamente solo la persona condannata ma riesce ad arrivare a tutta la famiglia. Con il progetto si vuole cercare di limitare questo impatto. Il carcere così com’è non garantisce né l’affettività né la genitorialità, né i diritti dei bambini e dei ragazzi figli di detenuti”.

Come dicevamo prima, una delle cose che colpisce di più è come, varcando quella soglia, il genitore detenuto venga come spogliato da ogni responsabilità, come teorizzava il sopra citato Goffmann. Secondo Sara Romito, che ne ha scritto nella sua tesi di laurea magistrale in Psicologia della devianza e Sessuologia all’Università degli studi de L’Aquila, non è solo una questione di lontananza fisica dai figli ma succede che l’uomo e la donna detenuti non abitano più loro stessi, poiché denudati del controllo sulla propria vita. Per muoversi, in qualsiasi direzione, hanno bisogno dei permessi dell’Amministrazione penitenziaria. Ed ecco che interviene la “domandina”, ossia il modello 13, modulo prestampato che permette alla popolazione ristretta di inoltrare le proprie richieste alla direzione del carcere.

Varcando la soglia del penitenziario si entra nel “mondo in -ino”, dove ogni cosa del quotidiano, anche la più scontata, cambia nome e diventa “piccola”, – ina appunto. Molte attività e figure presenti nel penitenziario sono chiamate, più o meno formalmente, con sostantivi a cui sono applicati suffissi diminutivi: oltre alla “domandina”, che, come si è detto, regola ogni bisogno, iniziativa ed interrogativo del detenuto, il mondo in “ino” del carcere (De Robert, 2006) è popolato da “scopini”, “spesini” e “secondini”, rispettivamente addetti alla pulizia, alla richiesta e consegna della spesa e al mantenimento dell’ordine e del contenimento penitenziario.

Nella sua tesi Sara Romito continua spiegando che la dipendenza dal padre carcere diviene assoluta: il detenuto cerca protezione da parte dell’istituzione totalizzante ed inibente in cui si trova, “che gliel[a] assicurerà, assumendo, nei suoi confronti, la veste protettiva di padre amoroso in cambio della più rigida obbedienza” (Salierno, 1973, p. 10). In questo modo si perde la strada a cui dovrebbe condurre l’istituzione penitenziaria, quella che porta a realizzare l’unicità e l’evoluzione positiva della persona reclusa. La deresponsabilizzazione infantilizza il detenuto e ciò fa sì che si esca dal carcere meno maturi e responsabili di quando ha avuto inizio la detenzione, con la pericolosa voglia di recuperare ad ogni costo il tempo perso da reclusi (Bezzi, 2012).

Qualunque intenzione di “risocializzazione” dovrebbe far leva sulla responsabilità personale dei detenuti. Il carcere mira, con una metodicità accanita, al contrario. Ogni piccolo gesto dell’esistenza quotidiana è espropriato di senso e di libertà, tallonato da riti assurdi e umilianti, regolato da norme che suonerebbero infantili in un asilo infantile
(Sofri, 1997, p. 8)

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